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Scott Matthew “Gallantry’s Favourite Son”

di | in: in Vetrina, Recensioni

“Gallantry’s Favourite Son” (Glitterhouse, 2011)


Etichetta: Glitterhouse
Brani: Black Bird / True Sting / Felicity / Duet / Buried Alive / Devil’s Only Child / Sinking / The Wonder Of Falling In Love / Seedling / Sweet Kiss In The Afterlife / No Place Called Hell
Produttore: Mike Skinner


Sembra che la scoperta di Scott Matthew risalga all’altro ieri e invece con “Gallantry’s Favourite Son” il barbuto australiano è arrivato alla prova del difficile terzo album – quarto se si considera il lavoro a nome Elva Snow in coppia con Spencer Cobrin. La scelta di portare avanti un’estetica della sconfitta e della vulnerabilità, senza modificare la sostanza ma alleggerendone solo un po’ il pathos, sembra ai primi ascolti mostrare la corda, fino a solcare un illusorio divario tra “Gallantry’s Favourite Son” e i predecessori “Scott Matthew” e “There Is An Ocean That Divides…”. Con l’ascolto ripetuto si entra in realtà nel magma che non si rassegna mai a dormire dentro il cuore a pezzi di Scott e se ne apprezzano con chiarezza le più quiete sfumature. E’ vero che l’iniziale Black Bird è una candida ammissione di debolezza («I’m a little black bird/nestled in your palm/you tell me there’s an outside world/I’m sure it can’t be as warm») che si chiude con un’impotenza che non potrebbe essere più rassegnata («I don’t want to learn to fly/that would mean I’d say goodbye»), però “Gallantry’s Favourite Son”, senza rinunciare al massiccio ricorso a quell’enfasi che rappresenta il più riconoscibile marchio di fabbrica dell’autore, è anche un disco sorprendentemente pieno di raggi di sole. Felicity innanzitutto, fischiettante e carica di voglia di vivere, una canzone che farebbe gola a una grande quantità di autori oggi. Felicity è il pezzo che Antony and the Johnsons (per citare il nome a cui Scott viene più facilmente accostato) non hanno ancora scritto. Perché la solarità è disarmante se fa capolino inaspettata in un mazzo di rose nere. E allora ben vengano Devil’s Only Child, sostenuta dal clarinetto di Carlos Noain, che ti fa sentire come se stessi camminando da solo per le strade di New York con un timido sguardo rivolto al futuro, e The Wonder Of Falling In Love, un gioiello pop alla maniera di Jens Lekman o, volendo spararla grossa, di Burt Bucharach. Non è un caso che l’album si chiuda con l’andatura scanzonata di No Place Called Hell, voce e ukulele, inno contro l’intolleranza e contro le bugie necessarie ad alimentarla («they break our ties/and tell us that our thoughts are lies/because we know there’s nothing on the other side called hell/and they can’t seem to keep us down»).
Scott continua a cantare la vita e i suoi rovesci, ad alimentare la sua poetica di giornate anemiche e suicidi rimandati, ma riuscendo stavolta ad arrampicarsi oltre che a sprofondare, in un’altalena di quelle emozioni immature che fanno temere oltre il lecito le pene d’amore. Con “Gallantry’s Favourite Son” si avvia a diventare un classico dei nostri anni e ad allargare la sua schiera di ammiratori. A patto che non si soffra di un’idiosincrasia all’enfasi di una voce sempre sul punto di spezzarsi, Felicity e The Wonder Of Falling In Love sono le canzoni ideali per fare dell’estate una languida stagione d’amore.




16 Luglio 2011 alle 16:11 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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