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A Popsophia la filosofia dei cartoni animati

di | in: Cultura e Spettacoli, Primo Piano

Andrea Tagliapietra

Andrea Tagliapietra ieri al Chiostro


CIVITANOVA MARCHE – Dopo aver investigato l’incubo assieme a Dylan Dog, dopo esserci persi sull’isola di Lost, e ancora dopo aver percorso con Frodo il regno della Terra di Mezzo, ieri sera si è tornati a scrutare le piccole cose del mondo trovandole inaspettatamente irradiate di luce nuova.

Nella semplicità di linea tracciate e capaci di evocare un mondo altro, nella costruzione di altri luoghi, storie e personaggi, può essere individuato uno spazio ampio per fare filosofia. Essa, come abbiamo visto non risiede nella collocazione culturalmente alta dell’oggetto discusso, e, a ben vedere, neppure nel target cui tale oggetto si rivolge. Come a dire che la filosofia è in tutte le cose, in quella capacità di interrogarsi e porsi da una prospettiva nuova che vada a disfare le consuetudini. Il filoso Andrea Tagliapietra, a tal proposito, ieri ha dimostrato come nella poesia animata di un disegno si nasconda una interrogazione filosofica degna di tale nome. Popsophia ha smantellato la distinzione tra categorie per le quali è legittimo fare filosofia e categorie che la aborrono. I cartoni animati, luogo patinato di quel mondo felice mai realizzatosi in Terra, per dirla con Cacciari, sono oggetto condiviso e indipendente nei quali, il più delle volte, i personaggi sono autonomi dalla storia, dal racconto. Essi sono archetipi con una propria psicologia, una propria filosofia. Il riferimento è evidentemente a certi tipi di cartoni ora disneyani ora antidisneyani dove personaggi quali Topolino nel primo caso e Road Runner giusto per fare un nome, nel secondo hanno prerogative immutabili a prescindere dalla storia narrata. Nella sua diffusione nel collettivo, il cartone si fruisce nella ripetizione e nella nostalgia. Per spiegare il concetto è forse opportuno fare un passo indietro. Tagliapietra distingue tra due filoni.

Il disneyano dove il mondo è sintesi di reale e immaginario, dove la realtà per quanto immaginifica mantiene comunque un suo senso, dove le storie che lo popolano hanno una evoluzione diegetica. Il secondo ramo è quello che il filosofo chiama antidisneyano. Si riferisce a quei cartoni animati tipici della Warner Bros in cui la narrazione è assente e il quid della vicenda è tutto incentrato sulla ripetizione di azioni antitetiche provenienti da personaggi posti in contrapposizione stagnante. È il caso di Tom&Jerry, Willy il coiote e Road Runner, Twitty bird e Silvestro. Qui la vicenda non esiste, il mondo in cui essi agiscono è fittizio e poco significante, la realtà di senso è distrutta. Ciò che importa è l’eterno inseguimento in cui, in chiave quasi sadica, saremo portati a parteggiare per l’inseguitore anziché per l’inseguito per il semplice fatto che quest’ultimo non viene mai catturato. Se ciò avvenisse però il cartoon morirebbe, esaurirebbe il suo perché. Dunque mentre nel disneyano la ciclicità è proustiana ed è associata ad un sentimento di nostalgia, nell’antidisneyano vi è un certo eterno ritorno di gusto nietzschiano. I cartoon disneyani e antidisneyani ignorano i concetti di morte e dolore ma lo fanno in modo diverso. Il mondo platonico che ricostruisce l’intorno del famigerato castello di Neuschwanstein in Baviera, icona della Disney, riconosce la morte come luogo del ritorno. È nella dolcezza dell’assenza, nell’improvvisa sparizione che si ricostruisce un mondo del domani dove il ritorno è possibile. Anche il dolore, l’inadeguatezza di un personaggio sono in realtà formula magica di rivelazione di un potenziale di grandezza. Il personaggio supera se stesso attraverso la debolezza, il motivo primo di irrisione che lo caratterizza. Siamo nel sogno americano a tutti gli effetti. Di contro nell’antidisneyano dolore e morte non esistono in quanto nulla esiste. Essi sono ingredienti che ricorrono e si cancellano nella memoria dell’episodio successivo. Sono appuntamenti fissi cui il bambino è abituato così come la morte di Kenny in South Park. Rituali. Il kafkiano si apre sul mondo oltre Disney: una sorta di raccapricciante sadismo.

Eppure il mondo Disney sta da qualche tempo iniziando un processo di contaminazione su due fronti. Se da un lato la collaborazione con la Pixar ha aperto scenari futuristici da 3d, per un altro verso la Disney ha mantenuto un filone più classico e bidimensionale. Ma la contaminazione non avviene solo a livello tecnologico. Forse mossa da soffi apocalittici giapponesi, la Pixar ha introdotto ultimamente tematiche cupe che non offrono spazi di ritorno. In Up, la morte, la vecchiaia, la solitudine diventano temi possibili anche nello spazio roseo del disegno animato.

L’immagine del cartoon ha in sé tratti di ipertrofia, raccoglie ciò che afferma e ciò che nega, si sveste della parola del fumetto e torna ad un vuoto riempito di colore. Offre la possibilità di una visione con e attraverso la quale si ricongiunge l’adulto alla categoria universale dell’infanzia.

In sé conserva la caratteristica del mito allorché quella ripetizione che lo caratterizza è reiterazione di una variazione che mantiene inalterato un certo fil rouge di riconoscibilità.

Dunque un luogo ibrido quello del cartoon, dove reale e immaginario trovano o almeno possono trovare una compenetrazione da amalgama. A ben vedere un tema caro alla filosofia e cioè quello che scioglieva in disputa le due categorie dell’immaginario e del reale vengono qui messe in crisi. Il cartoon mette ontologicamente in crisi questa dicotomia e nel farlo non solo manifesta la potenza della discussione filosofica che serba ma riduce di molto la critica etica che spesso, in casi di violenza da Grattachecca e Fichetto show, gli si rivolge.




8 Agosto 2011 alle 21:48 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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