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Il Principe della Terra di Mezzo a Popsophia

di | in: Cultura e Spettacoli, Primo Piano

Quirino Principe

Il Chiostro di Sant’Agostino scopre il Signore degli Anelli


CIVITANOVA MARCHE, 2011-08-07 – Milano 1969. Il cuore della città brucia; il freddo di dicembre si carica di irruente calore. La strage di Piazza Fontana squassa la tranquillità del Paese. Dalla Garzanti Quirino Principe esce sbattendo la porta e procede verso casa divorando la strada a grandi falcate. È la rottura definitiva della collaborazione con l’editore milanese. Ancora scosso e infastidito dalla discussione con il direttore, il traduttore allora trentaquattrenne viene raggiunto da una telefonata. È la nascente casa editrice Rusconi che lo vuole nel proprio organico. Una fulgida collaborazione che lo coinvolge nel lavoro di produzione del nuovo catalogo. Poi una sfida. Un volume sostanzioso di fogli non ancora tradotti; un’opera non del tutto edita ma che nel primo volume pubblicato ha segnato un evidente flop. Una creatura la cui bellezza deve ancora essere riconosciuta: è il Signore degli Anelli di Tolkien. Undici mesi di lavoro durissimo per tradurre quello che ancora non era stato reso all’italiano e per risolvere quell’insoddisfazione derivante dalle soluzioni linguistiche adottate nella prima edizione. Un assorbimento totale di energie per rendere al pubblico il mondo della Terra di Mezzo. Così come il proprio bimbo che muoveva i primi passi e farfugliava le prime parole, il lavoro all’opera inizia quell’evoluzione paziente, quella crescita costante fatta di piccoli tasselli posti a costruzione del mondo oltre l’immanente che ne motiveranno poi il successo editoriale. Quirino Principe ieri ha così raccontato, quasi poeticamente e con la sua solita capacità di trasformare parole in immagine, la propria storia nell’intreccio con quella del Signore degli Anelli. Si è definito un semplice tramite linguistico dal momento che “il libro vive di vita propria”, e non è né comprabile né vendibile sul piano ideologico. Eppur di tentativi di tirare a sé il manoscritto ve ne sono stati: un trasportarlo da un piano di fiaba d’autore ad una opera con connotazione politica ora di estrema destra ora di caratura hippie, passando per la lettura allegorica cristiana. Ma l’indipendenza dell’opera di Tolkien è a tutto tondo; essa non solo crea un mondo che non ha alcuna strada di connessione con il nostro ma non rappresenta in alcun modo un tracciato storico di alcun tempo. È una commistione di mondi linguistici, il parto di una fervida immaginazione che intende svincolare il suo soggetto dalla interpretazione filo cristiana che vuole il bene e il male come fazioni contrapposte nelle quali si gioca il futuro della Terra di Mezzo. L’antitesi è qui tra il bello e il brutto: tra il mondo della Contea, verde e benevolo, ricco e soleggiato e l’oscurità infinita della terra di Mordor. Tra l’uno e l’altro una evoluzione di frammezzi, uno spettro di piccole metamorfosi graduali verso il bello o verso il brutto. Al bello, come al brutto, non corrisponde solo l’armonia o la disarmonia delle forme siano esse paesaggistiche che fisiche ma anche una eufonia o una cacofonia linguistica che si esprime nelle lingue parlate dai popoli. Il sublime e l’orribile a fondamento di una creazione linguistica che alchenicamente unisce lingue celtiche, anglofone, normanne, sassoni, germaniche e moltissime altre. Un pasticcio glottologico che manifesta tutta la conoscenza di Tolkien in materia di idiomi. Infondo il libro può essere considerato, se letto nella dialettica bello/brutto, un divertente manuale pop di estetica.

Eppure The Lord of the Ring contempla in se temi che vanno ben oltre estetiche percepibili con gli occhi. Uno di questi è il potere. Diciannove anelli donati da Sauron Signore di Mordor alle razze della Terra di Mezzo: sette ai nani, tre agli elfi e nove ai re degli uomini. L’inganno dell’Oscuro Signore sta però nell’averli legati tutti ad un altro anello da lui forgiato “per domarli, trovarli, ghermirli e nel buio incatenarli”. Il potere una volta conferito acceca, annebbia la visione del mondo e di se stessi, degenera la natura di chi lo esercita, manifesta il proprio lato oscuro. “Chi riceve in delega il potere lo esercita come un privilegio” e non per la collettività. Ed è per questo che il potere mai può essere utilizzato a fin di bene ergo il destino dell’anello non è quello di essere usato bensì quello di essere distrutto. L’utilizzo del potere significa asservirsi ad una forza fagocitante che difatti ha reso i re degli uomini, cavalieri oscuri, né uomini né spettri, effigie del non essere, attirati dal potere dell’anello come avvoltoi su carne fresca. Il potere è una massa energetica che tende dunque all’autodistruzione; ecco allora che il libro diviene metafora del tutto. Il male qui non è solo esercizio di azioni malvagie ma è un nucleo a se stante che non solo agisce ma attira a se. Ha cioè una militanza attiva e passiva al tempo stesso: l’anello viene cercato e cerca. Il male che lo ha forgiato esiste prima di Sauron, esso è il ribelle che rinasce sempre con nova forma e sotto altro nome. È lui narratore onnisciente che è nella storia e tutto vede, tutto sa. Non a caso qui non è Dio ad essere rappresentato, come di consueto, da un enorme occhio ma è il Male, quell’Orwell inquietante permeato dal fuoco. L’altra forma del male è quello che si manifesta nell’ignoto cosmico, il mistero al di la del tempo, del prima e del dopo. Ma se prima e dopo sono categorie ignote ed artificiali ecco che anche il tempo lo diviene non essendo più permeo di significato oltre i riferimenti attraverso i quali si esercita.

Il mondo di Tolkien è un mondo che si espande in una geografia dell’immaginario totalmente autonoma ed indipendente dal mondo come lo conosciamo; è un universo parallelo privo di cunicoli d’accesso a partire dal nostro qui e ora. Il mondo di Tolkien è oltre l’argine del fantasy. Il suo genere dunque? Semplicemente The Lord of the Ring .




7 Agosto 2011 alle 16:56 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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