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From Medea, quando si muore in due

di | in: Cultura e Spettacoli, Primo Piano

From Medea

Rassegna Perugini, il dramma dell’infanticidio materno narrato con cruda delicatezza


di Emanuela Sabbatini 


MACERATA – Terza domenica al teatro Lauro Rossi di Macerata per la rassegna Perugini giunta ormai alla sua 43esima edizione. Dopo il musical di domenica scorsa, “Mamma mia…domani mi sposo”, il divertimento cede il passo al gusto dolce-amaro di From Medea (Maternity blues), viaggio nel privato di quattro donne recluse in un carcere psichiatrico per aver commesso il reato di infanticidio. Amaro è sicuramente il tema. In un gesto dare la vita, in un altro dare la morte. Dolce, perchè il lavoro obbliga lo spettatore ad un movimento, ad una diversa gestione del giudizio, ad una trasfigurazione della colpa. Quello che ne rimane è la percezione tattile della sofferenza. Del mostro c’è ben poco, quasi nulla. Il rumore mediatico cui siamo soliti sottoporci a fronte di questi accadimenti, diventa bisbiglio di sottofondo. Il vero grido, il primo percepibile ed assordante è quello di morte. Morte duplice, della vittima e del carnefice. È qui che si coglie la dolcezza, quella triste sensazione di pietas in puro senso latino.

Una scena scarna, ma dai toni caldi. Due strutture in legno a simulare letti a castello, sono poste alla sinistra e alla destra del palco. In posizione centrale, prossimo al proscenio un’altra struttura in legno a fare da panca. In fondo, seguendo la verticale, un tavolino con una piantina dai fiori gialli e una radio. A scandire il giorno e la notte sono solo i colori proiettati sul telo posto sul fondo della scena: rosso arancio per il giorno e violaceo per la notte. Il passaggio da un giorno all’altro è intervallato da continui bui nei quali in maniera extradiegetica si inserice un motivetto semplice monostrumentale.

Quattro personaggi assai diversi. Quattro modi altrettanto diversi di rimasticare il dolore, di cercare assoluzione privata, personale e per questo incredibilmente difficoltosa.

Eloisa (Chiara Garibaldi), fumatrice e passionale, dissacratoria e aggressiva. Nel suo passato la vita dissoluta, un grande amore, e le luci di un palcoscenico calcato di rado e non per spiccate capacità interpretative. Il suo gesto estremo è solo un incidente. Accetta la vita solo in quanto negazione. Nega di aver ucciso il figlio, nega la veridicità dei sentimenti, nega l’apporto valoriale, nega il senso di colpa. Più che semplicemente cinica appare nichilista. Davanti al flusso caotico del reale, non accetta una spiegazione razionale del mondo e dell’accaduto ma si ribella ad esso. Non v’è finalità ultima che orienti il vivere. Ma la propensione a questo rigetto è una maschera per proteggersi dal dolore. Non è un caso se la canzone che ascolta è Breaking my heart di Michael Jackson e se l’uomo che ama, e che ora la rifiuta, Max è colui che le ha spezzato il cuore facendolo battere più forte. “Tutto a tinte forti, niente colori pastello nella mia vita”. È nell’estremismo continuo, che va dalla condotta di vita (il sesso, il fumo, le droghe, l’alcol) alla scelta linguistica (parolacce e volgarità), che espia, o meglio convive con la sua sofferenza.

Vincenza (Maura Amalberti) è colei che vive la propria esistenza perchè “Una volta che hai deciso di vivere, ti abitui ad ogni cosa”. Le giornate le trascorre cantando Battisti, (emblematica Prendila così), scrivendo lettere agli altri suoi figli che ormai vivono con il padre e la sua nuova moglie, prendendosi cura di una piantina e pregando. Il rapporto con la fede è intenso quanto intenso è il proprio senso di colpa. É colei che piange ad occhi asciutti, che il dolore lo cova dentro e tenta di dargli risposta ogni giorno.

La ragazza-madre, un po’ bambina, un po’ malata, un po’ donna, un po’ matta è Rina (Federica Spanò). Gioviale ed energica, sognatrice ed innamorata di quel ragazzo più piccolo di lei che le manda dolci lettere e che nel suo immaginario è lì pronto ad attenderla. Rina alterna la fanciullezza e l’adolescenza. Balù, il suo coniglietto di peluche con addosso ancora l’odore di talco della figlia, e il Tocai dove affoga i sentimenti tristi e fa emergere la risata. Ma il dolore è malattia. Quando la paura di dover vivere con i soli terribili ricordi che ha, senza la possibilità del sogno, si fa grande, ecco che viene colta da una crisi epilettica.

Infine Marga (Giorgia Brusco), dolce e timida ma determinata e protettiva nei confronti delle compagne. Per lei il parto è insieme autoaffermazione e triste constatazione. Lei, che parlando del figlio dice piena d’orgoglio: “Avevo fatto qualcosa, io che non avevo mai fatto niente”. E conseguentemente a questa affermazione di sé, la terribile presa di coscienza di aver generato un clone del marito, un piccolo esserino simile per lineamenti al padre e non a lei. In una famiglia che schiaccia e occulta i malesseri, dove la sua figura stava remissiva nell’ombra di quella perfetta del marito, è la stanchezza che viene a trovarla. La poesia, il cucito, la lettura. Queste le ancore di salvezza.

Quattro donne che “bocciate in amore pagano il pedaggio del dolore”.

E quando dimenticare non è possibile, quando il mondo è lontano, quando il ricordo è solo infertile e terribile landa desolata, quando il sogno è un lusso da cui difendersi per non rimanere schiacciati ancora una volta, quando manca il senso e nemmeno Dio può restituirlo, allora finire è una allettante soluzione. Ed è quella che sceglie Vincenza. Dopo l’ultima lettera ai figli in cui l’amore diviene personificazione del proprio sentire (“Non si può vivere senza chiamare amore qualcuno. Ed io vi chiamo amore”), Vincenza si toglie la vita.

Un nuovo personaggio verrà ad abitare la cella. La vita andrà avanti: recitata, come quella di Eloisa, sognata, come quella di Rina, ridotta in pezzi, versi a cui dare forma o scampoli da cui trarre un vestito, come quella di Marga. Vivere come essere già morte ma con sottili flebili speranze, posa dell’incedere quotidiano.

La luce si spegne su L’ultimo bacio di Carmen Consoli e si riaccende catturando immagini in still life di una vita che segue.

Buona l’interpretazione e la regia di Gino Brusco anche se forse nel dialogo, scelto come unico mezzo narrativo, si perde la rottura necessaria che è data dal monologo, spazio interiore di analisi e di riflessione dove la voce sola è immancabile flusso di coscienza.




31 Ottobre 2011 alle 15:11 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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