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Cecchi infiamma il palco del Lauro Rossi col suo Sogno di una notte d’estate

di | in: Primo Piano

sogno di una notte d’estate

La commedia di Shakespeare, un manuale di teatro tra passato e presente  



“Anche se è antica, per sua stessa natura quella del teatro è sempre un’arte della modernità. Una fenice che deve essere sempre riportata in vita. Perché l’immagine che comunica al mondo in cui viviamo, il giusto effetto che crea un collegamento diretto tra la performance e il pubblico, muore molto rapidamente. 

Quindi dobbiamo assolutamente abbandonare qualsiasi idea di tradizione teatrale.”

Peter Brook



MACERATA – Quando si riesce a creare la miscela perfetta tra generi tanto lontani quanto contigui per compiutezza, allora si è approdati ad un mondo nuovo dove la parola “imitazione” è una offensiva definizione di quella che è a tutti gli effetti una nuova creazione. “Sogno di una notte d’estate” (così accorciato il titolo nella traduzione di Patrizia Cavalli) di Carlo Cecchi ne è un esempio. Prodotto dal Teatro Stabile delle Marche con la compagnia di giovani attori dell’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico di Roma, lo spettacolo ieri sera ha aperto la stagione di prosa del teatro Lauro Rossi di Macerata.

Non si può negare un certo straniamento iniziale dinanzi ad una scenografia così scarna da risultare imbarazzante nel confronto con il barocco di quella tipica del teatro vittoriano. Sipario già aperto appena si accede alla sala e tre enormi pannelli bianchi fanno da cornice al palco: uno sul fondo a formare angoli ottusi con i due laterali, così che lo spazio scenico si ingrandisca in prossimità del proscenio. Calanti dall’alto, grandi rosse molle-fermacarte li tengono sospesi da terra quasi fossero lenzuola stese al sole. Sul fondo una batteria, due chitarre ed una tastiera, flauto e clarinetto. In proscenio un telo di erba sintetica ripiegato accuratamente a formare una striscia verde. Simmetricamente ai lati estremi del palco due puff arancioni. Poi viene in mente un ricordo. 1970, Peter Brook con la Royal Shakespeare Company, mette in scena “Midsummer Night’s Dream” in una vuota scatola bianca con sole due porte nascoste sul fondo. Ed allora l’ambiente diventa subito più familiare.

Carlo Cecchi

Carlo Cecchi si fa demiurgo di un lavoro alchemico. La traduzione di Patrizia Cavalli conserva ed esalta la perfetta bellezza armonica del verso shakespeareano. Si recita in rima, con il linguaggio polveroso delle pagine ingiallite della commedia del ‘600. Ma il riso, lo stupore, l’incanto si conservano uguali, ed è magia. Al testo, si contrappone in duro contrasto, non solo la staticità e l’asciuttezza della scenografia, ma anche la scelta dei costumi. Contemporanei (abito per gli uomini e veste smanicata per le donne), dai colori roseo-violacei quelli degli ateniesi Lisandro, Demetrio, Ermia ed Elena. Plasticosi e sgargianti nei colori quelli del mondo incantato di elfi e fate dei reali Oberon e Titania. Con un filo di regalità popartistica nel mantello rosso con le maniche a palloncino quelli dei reali Teseo ed Ippolita. Quasi anni ’50 da rockabilly nel ciuffo biondo cenere e la nera aderenza, quello del folletto spiritello Puck. Streetstyle o arrangiati quelli della compagnia sgangherata di attori.

La musica, nata con la consulenza di Nicola Piovani e suonata di volta in volta da attori diversi, si innesta nella recitazione non come semplice colonna sonora, ma come strumento live in grado di dare ritmo al recitato, di introdurre situazioni e variabili inattese, di assurgere ad una funzione seminarrativa. A tratti c’è una qualche incursione nel mondo del musical. Una sfida quella di Cecchi mirante quasi a farci intendere tutte le possibilità di una commedia che può essere considerata benissimo un manuale di teatro.

Il recitato è sia ricalco perfetto del testo di Shakespeare che fisico approccio alla commedia. La sfida non è simulazione di incrocio di spade ma lancio di puff e spintoni.

E poi il teatro nostrano, quello della commedia di Eduardo. L’espediente dell’equivoco c’era già nel testo di Shakespeare è vero. Ma quando Carlo Cecchi interpreta il vecchio Cotogno, autore e regista della commedia che la strampalata compagnia di attori vuole mettere in scena per le nozze dei due reali Teseo ed Ippolita, allora ci sembra di essere lì, nelle case povere e con le volte a stella della Napoli di De Filippo, mentre il tragico si mischia col comico. Cotogno sbiascica un dialetto partenopeo che ricorda molto, moltissimo quello di Eduardo. E allora se già la commedia si presta ad essere triplice nelle sue tre storie intrecciate con maestria, quella del mondo fatato della Natura, quello umano con i suoi drammi d’amore, e quello del “teatro nel teatro” di Cotogno e i suoi attoruncoli, lo stesso si può dire per la messa in scena. Triplice anzi poliedrica. Il tributo a Brook, la tradizione della commedia di Eduardo, la forza testuale e non soggetta a scadenza di Shakespeare, il retrogusto di musical, la contemporaneità delle scelte musicali, i colori acidi di certi costumi di scena (azzardo, da Arancia Meccanica a Grease).

Ha ragione Brook. Il teatro è sempre un’arte della modernità, e nelle tasche del suo cappotto ci si ritrova un po’ tutto il suo passato.

Ma la tradizione è già morta se la si obbliga ad essere reiterazione, riproduzione del passato. Essa è invece nomade tra lo ieri e l’oggi. Solo così il teatro vive.

Tutto esaurito o quasi e applausi convinti.

Sogno di una notte d’estate




11 Novembre 2011 alle 20:05 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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