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Il cinema secondo Springsteen

di | in: in Vetrina

“Il cinema secondo Springsteen” (visionirock, Quaderni di Cinemasud – pag. 234; euro 12)

Finalmente un libro che analizza nel dettaglio il complesso rapporto che da quarant’anni lega il canzoniere di Bruce Springsteen con l’immaginario filmico d’America, un rapporto di dare e avere che rappresenta un unicum nell’affollatissimo panorama rock mondiale. Abbiamo intervistato Diego Del Pozzo e Vincenzo Esposito, curatori de “Il cinema secondo Springsteen”, uscito qualche settimana fa per la neonata collana “visionirock” dei Quaderni di Cinemsud.


Il rapporto con il cinema è talmente cruciale per Springsteen che mi sembra impossibile che in Italia mancasse un testo che facesse il punto sulla situazione. Si può dire che avete colmato una lacuna? Ci sono all’estero testi che analizzano l’argomento?

VE: “Non ci risultano. Sono stati scritti libri interessanti sui suoi rapporti con la tradizione letteraria americana, con la politica, perfino su Springsteen e la filosofia. Non esistono però neanche all’estero studi organici e approfonditi sui rapporti tra Springsteen e il cinema. Non mancano brevi articoli sull’argomento: per esempio, pochi anni fa, ne è stato pubblicato uno abbastanza interessante in Svezia (paese nel quale esiste un vero “culto” del Boss, un po’ come in Italia o in Spagna), che si concentrava, però, principalmente sul film di Sean Penn”.

Che riscontri state avendo?

DDP: “Ottimi in termini di reazioni da parte di chi lo legge, siano semplici appassionati, studiosi o addetti ai lavori. E anche le recensioni uscite finora sono state estremamente positive. Per quel che riguarda la distribuzione, invece, potevamo certamente sperare in qualcosa di meglio. Ma, purtroppo, in Italia questa è la principale criticità che avvilisce e strozza l’editoria indipendente”.

Il primo Springsteen era fortemente cinematografico, le sue canzoni erano davvero dei microfilm. Pensando agli ultimi lavori del Boss, questa caratteristica della sua scrittura non è andata un po’ persa?

VE: “Un po’ sì, soprattutto negli ultimi tre album. Fino a The Ghost of Tom Joad la forza icastica della scrittura poetica springsteeniana ha dato vita a delle vere e proprie “canzoni-film”. Ciò nonostante, si trovano alcuni esempi splendidi anche in Devils & Dust, pezzi come Black Cowboys o The Hitter. C’è, inoltre, un tentativo di ricreare un’atmosfera da “spaghetti western” con Outlaw Pete, che però è musicalmente poco convincente. E, sempre da questo punto di vista, nell’ultimo disco mi sembra molto ispirata e interessante We Are Alive”.

Per il suo esordio alla regia, The Indian Runner (Lupo solitario), Sean Penn si è basato su un soggetto tratto dalla canzone Highway Patrolman, una delle ballate di Nebraska. Come giudicate il film?

DDP: “Interessantissimo. Anche perché si tratta probabilmente di un unicum nella storia del cinema statunitense e forse mondiale: un film di due ore che riprende con estrema fedeltà trama, personaggi e atmosfere di una canzone di cinque minuti. Davvero incredibile! D’altra parte, Penn è un autore dalla poetica affine a quella di Springsteen, che peraltro conosce da sempre, essendo stato fidanzato da ragazzo con la sorella Pam. Non a caso, le strade artistiche di Sean e Bruce si intrecceranno diverse altre volte, anche dopo Lupo Solitario”.

Avete una canzone di Springsteen che vi piacerebbe vedere trasformata in un lungometraggio?

DDP:Downbound Train: potrebbe ispirare una magnifica storia d’amore perduto e di sogni infranti, immersa nella profonda provincia americana e ricca anche di risvolti sociali. Naturalmente, il momento culminante del film sarebbe la scena della corsa notturna attraverso i boschi verso la casa vuota e ormai abbandonata dalla donna amata. A dirigerlo vedrei bene Paul Schrader o John Sayles”.

VE: “A me piacerebbe vedere un film tratto proprio da We Are Alive, canzone dell’ultimo album. Sarebbe uno splendido horror con implicazioni politiche, tipo La notte dei morti viventi di George Romero. La storia si svolge in un piccolo cimitero, sotto un cielo stellato. Le anime dei morti di varie epoche tornano a vivere e raccontano le loro vicende: c’è un ferroviere ucciso durante gli scontri del Great Railroad Strike del 1877, il primo grande sciopero nazionale americano, represso con violenza dalla polizia; c’è un giovane ragazzo di colore morto una mattina del 1963 durante la pacifica azione dimostrativa indetta da Martin Luther King a Birmingham, Alabama, anche questa finita in un bagno di sangue; e poi un altro ancora, morto di recente mentre cercava di attraversare illegalmente i confini del Sud. Tutti hanno ancora la forza di combattere per le loro idee, per i loro diritti, urlando: “Siamo vivi!”. Da brividi. Microstorie esemplari, insomma, che messe insieme compongono un puzzle oscuro della grande storia americana. Raccontate, però, con amore e con tono leggero (non a caso la musica s’ispira a Ring of Fire di Johnny Cash). Penso proprio che potrebbe essere un film perfetto per Tim Burton, se non perdesse tempo a produrre film stupidi come quello su Abraham Lincoln che ammazza i vampiri, uscito da poco per la regia di Timur Bekmambetov”.

Springsteen è solito dire che il suo corpo è stato liberato da Elvis Presley e la sua mente da Bob Dylan. Forse dovrebbe aggiungere che la sua visione del mondo è stata liberata da alcuni film. Che influenza hanno avuto su di lui registi come Elia Kazan, Nicholas Ray e tanti altri?

VE: “Proprio così. E volendo essere altrettanto diretti, potremmo dire che il suo sguardo è stato liberato da John Ford. Subito dopo Born to Run, l’orizzonte dei film del grande maestro americano incomincia a schiudersi davanti allo sguardo di Springsteen e a far emergere personaggi solitari, “borderline”, eroi quotidiani che agiscono secondo una coscienza sociale e che, nonostante siano degli emarginati, contribuiscono spesso alla ricostruzione e alla sopravvivenza di intere comunità. Pensiamo a film come Sentieri Selvaggi, I cavalieri del Nord-Ovest, Furore. Ma assieme a Ford, hanno avuto un’influenza notevole anche film di Nicholas Ray come Gioventù bruciata o di Elia Kazan come La valle dell’Eden. E prima ancora i b-movies come Thunder Road (Il contrabbandiere), visti nei drive-in, quei luoghi magici dove, negli anni ’50, ’60 e ’70, s’incontravano due simboli dell’American way of life: l’automobile e il cinema”.

Viceversa che influenza ha avuto Springsteen su alcuni dei più validi registi degli ultimi lustri, Jonathan Demme, James Mangold, Abel Ferrara, lo stesso Sean Penn?

DDP: “Secondo me, un’influenza enorme ed evidentissima. Da un certo momento in poi, infatti, Hollywood inizia a guardare con sempre maggiore insistenza a un universo springsteeniano ormai dotato di una propria coerenza interna e di temi ricorrenti, densissimo di spunti e suggestioni che appaiono perfetti per poter generare film di successo o, quantomeno, produrre cortocircuiti artistici interessanti. E sono davvero tanti i film americani che, a partire soprattutto dalla prima metà degli anni Novanta, iniziano a far proprio, in maniera più o meno diretta, quello che, per comodità, definirei “immaginario springsteeniano”, cioè quell’itinerario ondivago tra le pieghe e dietro le quinte del Sogno Americano, alla ricerca di ciò che il Mito vuol occultare, lì dove più forti e opprimenti si percepiscono le “tenebre ai confini della città”. In molti casi è una questione di ambienti, in altri di personaggi tormentati alle prese con l’“heart of darkness” di una nazione che essi stessi stentano a riconoscere: una sterminata periferia dell’anima che proprio Springsteen era riuscito a narrare con rara efficacia anni prima, in album come Darkness on the Edge of Town, The River, Nebraska e Born in the U.S.A.”.

Il libro parla dell’artista anche dal punto di vista iconografico. Al di là degli stereotipi, qual è il significato ultimo dell’immagine di sé che Springsteen ha concesso durante i suoi quarant’anni di carriera?

VE: “È un aspetto importante del libro. L’apparato iconografico ha contribuito a creare quell’“aura di autenticità” che ancora circonda Springsteen. Se è vero come scrive Dave Marsh che l’intera carriera di Bruce è stata un trionfo della convinzione sulla moda e soprattutto del contenuto sulla forma, è altrettanto vero che le convinzioni e i contenuti sono passati anche attraverso le copertine dei dischi e le immagini con le quali ha voluto determinare la sua “narrazione”. C’è una dichiarazione dello stesso Springsteen che spiega bene l’importanza che ha rivestito l’iconografia nel dare significato all’immagine di sé: “Prendete la copertina di Born to Run: guardandola solo davanti vedrete una splendida foto, una bella immagine di copertina, ma quando l’aprite e vedete me e Clarence insieme, la magia dell’album comincia a fare effetto. Comincia a prendere forma un’amicizia, una narrazione intrisa della complicata storia d’America, e si sente la musica già nell’aria”. Ecco, di questa complicata e affascinante storia d’America si occupa il bel saggio di Corrado Morra contenuto nel nostro libro, nel quale per la prima volta si ripercorre e si analizza l’opera di Springsteen con gli strumenti affilati dell’iconologia”.

Potete dire qualcosa sulla collana visionirock, da voi curata?

DDP: “Dico solo che, nell’immediato futuro, potrebbero esserci piacevoli sorprese legate a questa sigla”.




2 Ottobre 2012 alle 10:12 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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