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Benjamin Markovits “Un gioco da grandi”

di | in: Primo Piano, Recensioni

“Un gioco da grandi” (66thand2nd, collana Attese – pagine 312; euro 16,00)


«Mentre accadeva tutto questo noi giocavamo a basket, due allenamenti al giorno e la partita il sabato. La domenica era libera e per contrasto sembrava appartenere a un mondo completamente diverso, dove contavano anche altre cose. La disoccupazione, il clima, le guerre lontane. In città c’era un chiosco che vendeva l’”Herald Tribune”, e la domenica ne compravo una copia e la leggevo davanti a una tazza di tè, guardando oltre la portafinestra del balcone verso i campi che si stendevano dall’altra parte della strada.»


Da piccolo Benjamin Markovits aveva due sogni: giocare a basket e fare lo scrittore. Dopo aver tentato e abbandonato una poco esaltante carriera cestistica ed averne invece intrapresa una da apprezzato narratore, con “Un gioco da grandi” torna a rincorrere la palla a spicchi e il sogno adolescenziale che questa si porta dietro. Lo fa servendosi di un protagonista con il suo stesso nome, partendo da elementi autobiografici per approdare ad una storia di formazione che rimane impressa nel lettore per uno strano ma efficace miscuglio di levità e crudeltà.
«Mi piace scrivere di outsider», ha dichiarato Markovits presentando a Milano il romanzo, «mi soffermo sul dolore che le persone provano quando si accorgono della differenza tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere». Il protagonista di “Un gioco da grandi” non a caso è un outsider in piena regola, uno spettatore della vita in attesa di ritagliarsi un posto minuscolo, uno spazio risibile. Terminato il college, Benjamin Markovits decide di andare a giocare per una stagione in una squadra di basket della seconda divisione tedesca. Non è un talento, dalla sua ha l’altezza e una predisposizione a difendere più che ad attaccare. Non ce la farà ad imporsi come giocatore, passerà il grosso del tempo in panchina, ma riuscirà a misurarsi con la vita, con l’età adulta, con l’amore e con il rovescio di tutte e tre le cose.


Il basket è sport magnifico da raccontare, distante dai clamori suscitati dal calcio, un sport per menti illuminate, per fini pensatori, per imperterriti cercatori di bellezza oltre che per fisici portentosi. Markovits costruisce la sua storia in modo da far convergere i tanti nodi intrecciati durante il romanzo nella finale di playoff che si consuma nelle ultime pagine, una di quelle partite con dentro altre cento partite, dove ognuno lancia la propria sfida al destino battendosi ciecamente. Ma, al contrario di tante favole di argomento sportivo, il risultato qui non conta e non sposta di un millimetro la parabola che il futuro sarà capace di disegnare. Lo stesso millimetro che può decidere se il tiro decisivo finirà dentro o sul secondo ferro: la vita, sembra dire Markovits, è lontana dal dio della statistica e degli almanacchi.


Tra i coprotagonisti del romanzo – tutti raffigurati mediante tratti semplici ma puntuali nell’introspezione psicologica – spicca la figura del giovanissimo e predestinato Karl: nel suo personaggio l’appassionato di basket non faticherà a riconoscere il campione NBA Dirk Nowitzki alla sua prima stagione da professionista. Markovits ha realmente giocato contro il giovane Nowitzki nella sua breve esperienza cestistica in terra crucca; nella finzione di “Un gioco da grandi” lo trasforma in un compagno di squadra di Benjamin, un escamotage necessario per raccontare meglio le piccolezze e i tentennamenti di un futuro campione e per offrire uno spunto d’interesse in più ad un romanzo già di per sé coinvolgente dalla prima alla trecentesima pagina.




7 Dicembre 2012 alle 20:25 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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