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Il “Pigmalione” vince la la 45a edizione di “Macerata Teatro”, Premio Angelo Perugini

di | in: Primo Piano

locandina Mc Teatro_2013

Dopo le premiazioni di domenica pomeriggio, di scena la prima nazionale di “Café con Édith” del CTR

MACERATA – Si è chiusa domenica scorsa la 45° edizione di Macerata Teatro, Premio Angelo Perugini, rassegna teatrale che da ormai quasi un cinquantennio porta al Lauro Rossi il meglio delle compagnie amatoriali italiane. Una manifestazione di grande rilievo che quest’anno si è arricchita anche di un appuntamento fisso pomeridiano, quello del mercoledì, utile a inoltrarsi nelle questioni fondamentali dello spettacolo domenicale grazie al contributo di intellettuali e studiosi.

Ad aggiudicarsi la 45a edizione, davanti ad un teatro gremito, il “Pigmalione” di George Bernard Shaw della compagnia “F. Campogalliani” di Mantova, una operazione teatrale estremamente ben riuscita che si è distinta per un allestimento scenografico originale e per la ricercatezza dei costumi.

Il premio del pubblico va invece alla Compagnia “Gli amici di Jachy” di Genova con la commedia yiddish “Il violinista sul tetto” di Sheldon Harnick.

Un ricambio di pubblico è quello cui si assiste nella seconda parte del pomeriggio. Il teatro nuovamente si riempie per il fuoriprogramma conclusivo che ogni anno Macerata Teatro serve al suo pubblico come ciliegina sulla torta. Domenica è stata la volta della prima nazionale di “Café con Édith – la vie n’est pas rose”, produzione del CTR (Compagnia Teatrale O. Calabresi), messa in scena teatrale con testo, regia, e costumi della giovane Laura Perini, luci di Giulia Ausili anche interprete della giovane Edith, coreografia di Giosy Sampaolo e fisarmonica di Francesco Melchiorri.

L’idea è buona. Quattro momenti, a mo’ di capitoli, per scandire la vita di Edith Piaf: l’infanzia, la strada, il successo, il testamento. Tre attrici diverse interpretano e accompagnano lo spettatore nella vita di Môme Piaf, e altrettanti angoli di palco con allestimenti diversi caratterizzano i luoghi e i momenti della celebre cantante francese.

Tutto avviene nella forma del monologo e del dialogo simulato. Ogni Edith (in ordine cronologico Giulia Ausili, Antonella Gentili, Fulvia Zampa) si confessa al pubblico e a se stessa mentre a tessere il fil rouge della storia c’è il sempre ottimo Piergiorgio Pietroni, narratore esterno, onnisciente.

Il ruolo di restituire le sensazioni e la carica emozionale, oltre le parole, è affidato alle musiche tracciate e a tratti sbiascicate dalla fisarmonica di Francesco Melchiorri e ai passi di danza con cui si apre lo spettacolo, prima ancora che si schiuda il sipario.

Come dicevo, l’idea pare essere buona. La realizzazione è però forse un po’ sbavata e con qualche lacuna biografica. Il personaggio di Edith Piaf, la piccola Édith Giovanna Gassion, incarnazione di quel chiasmo che contrappone ed equilibra l’esilità fisica e la forza vocale e che le assegnerà, proprio per questo motivo, il nomignolo di “Piaf”, usignolo , è un’esplosione di emozione e di sentimenti dolorosi.

Parlare di Edith Piaf è parlare della storia della musica, e al contempo, narrare la storia artistica della Francia e del Mondo di quel periodo, senza tralasciare l’incredibile scrigno di emozioni che si dipartono dalla sua voce prima ancora di poterne intendere le parole.

La sua vita è l’impossibile che si rende concreto, anche, purtroppo, fatalmente. Una “piccola fiammiferaia” della Parigi anni ’30 arriva a calcare i palchi più celebri d’Europa e del Mondo. Il sogno si rende possibile. E al contempo, anche l’incubo è possibile. La vita di Edith è infatti un susseguirsi di perdite, di mancanze, di eventi terribili.

Dalla realizzazione però, non traspare lo struggimento e la forza che accompagnano questo personaggio.

Per necessità di riduzione teatrale, si sceglie di tagliare alcuni dei passaggi fondamentali della vita della Piaf, o semplicemente di viverli come trascorsi frettolosi e che risultano forse poco incisivi. Questo mina alla base la capacità di tracciare, come colpi di pennello sulla tela, i contorni fondamentali a definire il personaggio.

Dell’infanzia di Edith ad esempio, si trascura che la prima persona ad occuparsi della piccola fu la nonna materna, una alcolista che riempiva il biberon della bimba con del vino, con l’intento di annientare i microbi. Il primo approccio alla vita di Edith fu perciò estremamente traumatico. Lontana dai genitori, malnutrita, costretta a vivere nella sporcizia e pressoché priva di affetti. Solo in un secondo momento la piccola Edith incontrerà le premure di qualcuno, la nonna paterna, una Maîtressedi una casa di tolleranza, sicuramente non un affetto convenzionale. Lo spettacolo inizia da qui.

Sorvola sulle numerosissime storie d’amore della Piaf, emblema di quella ricerca di se stessa e di quel sentimento intenso che restituisce nel canto ma che non assapora mai davvero, l’amore. Dalla messa in scena non si legge il periodo storico: la famosissima “Vie en Rose” nasce nel 1946 appena dopo la seconda guerra mondiale, periodo intenso per l’artista, sia dal punto di vista professionale che sentimentale. Si tratta certamente di una scelta quella di rendere asciutta la narrazione privandola di ogni contesto ma il tempo rende il luogo e con esso anche l’arte.

Si ignora completamente il rapporto di amicizia e di stima con personaggi come Marlene  Dietrich,Orson Welles, e Jean Cocteu (che morì d’infarto poco dopo aver appreso la notizia della morte di Edith). Lambisce appena la perdita, causa una tragedia aerea, del suo vero grande amore il pugile Marcel Cerdan, e il senso di colpa che ne derivò dall’averlo convinto a tornare a Parigi con l’aereo anziché con la nave. Ignora completamente l’abuso di farmaci antidepressivi e antidolorifici che Edith assume a causa dell’artrite e che poi la porteranno alla morte.

Sicuramente degno di nota è il ricorso alla varietà delle arti per tentare di rendere l’atmosfera parigina del tempo, e certamente notevole l’interpretare la storia quasi a-temporalmente, come a voler enucleare il personaggio e lasciarlo fluttuare in un non luogo/non tempo.

Le stesse luci, nel progetto di Giulia Ausili, restituiscono un concetto di foro temporale, quasi a rendere i luoghi onirici e sospesi, a se stanti. Il cavallo a dondolo e i giochi di bambina, simbologia dell’infanzia, il nudo palcoscenico ora strada ora luogo d’esibizione, il salottino interno di un appartamento ricercato, ad incarnare il raggiunto successo e la poltrona, il tavolino e il lume tempestati di petali di rosa testimoni ultimi della fase conclusiva della Piaf. Ben costruiti i luoghi, benché a tratti difficilmente gustabili data la flebilità della luce volutamente evocativa che a tratti priva lo spettatore del piacere di scrutare e apprezzare l’allestimento e, con esso, i passi di danza della Sampaolo a volte fuori dall’occhio di bue luminoso.

Certamente notevole il coraggio di mettere in scena uno spettacolo su Edith Piaf, un colosso della storia della musica, di fare i conti con la complessità del personaggio, cui al di là delle carenze del testo, riescono ad assolvere i bravi interpreti, vecchie conoscenze del pubblico maceratese.  




26 Novembre 2013 alle 21:52 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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