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Elva Snow “Elva Snow”

di | in: Primo Piano, Recensioni


Etichetta: Glitterhouse / Venus
Brani: Pavement Kisses / Hold Me / Could Ya / Drinking And Driving / Shimmer / Live For Love / Eyesore / Last Drink / Stars / Hollywood Ending
Produttori: Spencer Cobrin, Michael Floyd, Tim Bright


Lo strano caso del disco d’esordio di una band che non esiste più da tempo, si potrebbe dire così. “Elva Snow” è infatti la riedizione – merito della sempre meritevole label tedesca Glitterhouse – dell’ormai introvabile ep di otto brani che la band ha pubblicato nel 2005, con l’aggiunta di due inediti. Trattasi di una riedizione quantomai importante, soprattutto per il successo solista del cantante Scott Matthew che è poi germogliato da questo progetto, successo che inevitabilmente ha riaccesso la curiosità sul nome Elva Snow.


Quando Matthew si trasferisce dall’Australia, sua terra natale, a New York, sul finire degli anni Novanta, tramite un’amica in comune entra in contatto con l’ex batterista di Morrissey, Spencer Cobrin. I due capiscono subito di poter mettere insieme le proprie esperienze e passioni musicali in un duo che faccia del pathos la propria bandiera. Cobrin scrive le musiche, Matthew le liriche. Il risultato è un rock d’autore elegante e magnetico in cui la lezione dei maestri David Bowie e Brian Ferry incontrano le traiettorie di band come Tindersticks e Suede. La voce di Matthew è un incanto: forza e dolore capaci di alternarsi in un’altalena timbrica che pare sempre sul punto di rompersi, contrappuntati da arrangiamenti mai invadenti, con la chitarra a scandire tempi e modi di un’intensità a tratti soffocante. Pavement Kisses e Hold Me fanno parte di quegli ascolti difficili da dimenticare, almeno per chi ama l’estetica della sconfitta che fa cantare versi come “yesterday you say you started to pray/a desperate attempt to/cover every prayer with every god/and hope to god that it works” e “hold me hold me if you told me/that lover meant leaver/hold me hold me if you’d mould me/to whatever matters”. Could Ya e Shimmer, con l’apporto della sei corde di Paul Jenkins, sono efficaci tentativi di amalgamare una più decisa sezione ritmica con l’elettricità delle due chitarre per suonare compatti come può solo un rock’n’roll full band e lambire territori smithsiani. Stars è una ballata claustrofobica sorretta da chitarra acustica e tastiera che nel finale sembra fare il verso al Bowie di Space Oddity. Dei due inediti, è il pezzo posto in chiusura, Hollywood Ending, a colpire nel segno: solo piano e voce per una canzone d’amore che non lascia scampo.


Dopo queste canzoni Spencer Cobrin torna a Londra e Scott Matthew inizia una carriera solista che lo vede affrancarsi dalle atmosfere rock per quell’estasi da camera fatta di torch songs e ambiguità sessuale divenuta, dopo il successo di Antony & the Johnsons, una delle ancore di salvezza dell’indie all’epoca della crisi discografica. L’exploit di Matthew arriva con la colonna sonora del film di John Cameron “Shortbus” e la santificazione con il secondo album “There Is An Ocean That Divides…”, uscito lo scorso anno, contenente brani di bellezza quasi impossibile – chi conosce White Horse sa di cosa parlo.




17 Aprile 2010 alle 21:46 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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