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Deer Tick “Born on a Flag Day”

di | in: Primo Piano, Recensioni

Etichetta: Partisan Records
Brani: Easy / Little White Lies / Smith Hill / Song About a Man / Houston, TX / Straight into a Storm / Friday XIII / The Ghost / Hell on Earth / Stung
Produttori: Deer Tick & Ari Schenck



Se siete appassionati del rock ruspante e un po’ truzzo che in certe zone degli States suona e gira meglio che altrove, fatevi mandare dalla Partisan di Brooklyn (la distribuzione italiana ahimè latita) il secondo album di John Joseph McCauley III, uno che si presenta sul palco al grido di “Ladies, dont step in any shit I wanna suck your toes later“, uno che a dispetto della giovane età possiede una laringe devastata che gli dona una voce che è un po’ Billy Corgan, un po’ Axl Rose e un po’ anatra agonizzante, uno che mescola rock e country con un gusto per il classico pressoché sconosciuto alla sua generazione. I Deer Tick sono la sua creatura e “Born on a Flag Day” è il secondo album, dopo il debutto “War Elephant” pubblicato nel 2007.
Ma John Joseph McCauley III è un ventitreenne che suona e canta come un cinquantenne solo ad un ascolto superficiale, perché gli influssi dell’indie-rock degli ultimi anni – qui i Lucero là i Built to Spill – nel folk-rock dei Deer Tick si sentono eccome, specie in questo secondo capitolo. “War Elephant” era puro McCauley, solitario e umorale, “Born on a Flag Day” è un album full-band, in cui McCauley è la stella assoluta ma i musicisti non fungono da semplice contorno.
L’iniziale Easy, senza dubbio il pezzo più radiofonico del lotto, è una dichiarazione d’intenti oltreché d’identità, McCauley non ha il piglio del poeta, dice pane al pane e non ci gira per niente attorno («I’ve got a bad defense / and it’s not just circumstance / that put me here / in a bad bad place / … / out of the door / with the devil in my eyes / that son of a bitch crossed me once / but he won’t cross me twice»). Poi ballate da crepuscolo (Smith Hill, Hell on Earth), suonate con un cappellaccio da cowboy calcato sulle tempie, tabacco e bourbon, si alternano a pezzi saltellanti e stradaioli (Straight into a Storm), passando per un’emozionante Song About a Man che però attacca tale e quale a Mansion on the Hill di Springsteen, e per un inno d’amore disturbato (Stung) in cui McCauley ribadisce il suo ruolo di outsider anche nelle faccende di cuore («if you call on me and I have left the scene / I’ll never be that man you wish I’d be / if you call on me and I have left the scene / no I’ll never be those things that you wish you’d see»).
Il momento più entusiasmante arriva con il duetto con Liz Isenberg nella divertente e disperata Friday XIII: ascolti il botta e risposta finale («J: Come on baby / L: You’ve got something to lose / J: I’ll buy you new clothes / L: I’ll buy you new shoes / J: All kinds of things that we really could use / L: But all I need is you / J: I need you girl, you got that heart and soul / L: We’ve been living in the dark and digging our holes / J: But all that we need’s under our nose / L: Boy, don’t you think I know? / J: I guess so») e non ti viene per nulla difficile immaginare lui e lei nei panni di Sailor e Lula di “Cuore selvaggio” o di Mickey e Mallory di “Assassini nati”.
McCauley se ne fotte delle mode, i locali più in di New York probabilmente sbattono al suo gruppo le porte in faccia, la camicia a scacchi con cui è solito salire sul palco fa inorridire i fashion-addicted dell’indie, Pitchforkmedia e compagnia cantando lo liquidano con frasi di scherno, però per il vostro prossimo viaggio in macchina la sua laringe a pezzi e le sue liriche di abbandono e di autodeterminazione potranno essere compagni più che piacevoli.






26 Agosto 2009 alle 14:30 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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