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Testamento biologico: riflessioni a distanza di un anno dalla morte di Eluana Englaro

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di Mario Mauro


A distanza di un anno dalla morte di Eluana Englaro si è nuovamente aperto il dibattito sulla questione del testamento biologico o, più correttamente, sulle direttive anticipate di fine vita.

Nomi a parte, ciò che più mi aveva indignato a suo tempo, è stato l’interesse propagandistico che si celava dietro la rapida approvazione di una legge: su una questione che, per i suoi profili borderline tra diritto/etica/morale, non poteva essere ad personam.

Diversamente, se una legge ci vuole (ed anche questo assioma andrebbe messo in discussione), è necessario un lungo ed articolato confronto, che travalichi le singole convinzioni politiche. In gioco ci sono una molteplicità di interessi. Quello del malato e del suo libero arbitrio; della famiglia che accetta una disgrazia e amorevolmente assiste il proprio congiunto; del medico e della sua esigenza professionale di poter svolgere la propria attività senza incorrere in responsabilità civili o penali.

A questi deve aggiungersi l’interesse dello Stato che, chiamato a dare attuazione al dettato Costituzionale ed a farlo rispettare, deve valutare fino a dove potersi spingere: cercando di non travalicare quei limiti a cui l’istintuale vox populi lo chiamerebbe; senza imporre una scelta unica, generalmente valida ma modellata pensando ad un unico caso.


Questi sono solo alcune delle esigenze in gioco e le questioni, già di per sé complesse,  si articolano ulteriormente ponendo i differenti interessi in una dimensione dialogica tra loro.

E’ legittimato il famigliare “a staccare la spina”, nonostante una scelta contraria del malato? Nonostante il malato voglia morire, incorre in qualche responsabilità chi assecondi tale desiderio? Quali comportamenti deve tenere il medico? Quando è corretto che si fermi per non essere considerato giuridicamente responsabile di una morte ed, al contempo, evitare un accanimento terapeutico? Può lo Stato legiferare ed imporsi sulla questione ed imporre a tutti un’unica soluzione?

È così evidente l’errore in cui l’intera collettività sarebbe caduta se una legge di tale portata fosse stata approvata in pochi giorni, senza la dovuta riflessione e le necessarie cautele.


Ma, a distanza di un anno, come si è sviluppato il dibattito? Leggendo i giornali ed ascoltando trasmissioni radiofoniche mi sembra che nessun passo avanti sia stato fatto e ciò che sentivo 365 giorni fa è ripetuto ancora oggi, negli stessi termini.

Se da un punto di partenza comune, che travalichi le convinzioni individuali dei singoli, bisogna muovere, questo non può non essere la Costituizione.

Secondo il tanto chiamato in causa art. 32, “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Vivere in uno stato democratico e di diritto i cui lineamenti essenziali sono tracciati dalla Costituzione, impone che alla luce di questa si debba valutare il merito di una legge.

Una legge che, senza dimenticare il principio di uguaglianza, tuteli le diversità e non imponga un’unica linea di pensiero.

Sterili ed inutili invece sono stati i dibattiti sul secondo comma dell’art. 3, a norma del quale Eluana non sarebbe mai morta: “il divieto di accanimento terapeutico non può legittimare attività che direttamente o indirettamente, per loro natura o per le intenzioni di chi le pone in essere, configurino pratiche di carattere eutanasico o di abbandono terapeutico”.

Al Lettore le valutazioni ed il confronto sulla nozione di accanimento terapeutico; sul concetto di terapia; sul problema se le forme di idratazione e respirazione artificiale vi rientrino o meno.

E, principalmente, sulla conformità di tale norma con il ricordato art. 32 della Costituzione.

Ma questi sono solo gli interrogativi, riportati frammentariamente, che da un anno continuano a rimbombare alle nostre stanche orecchie.


A prescindere da Eluana, il problema che a tutti noi dovrebbe interessare è un altro: nelle ipotese in cui le direttive di fine vita dovessero essere considerate legittime (come avviene in molti paesi europei e non mi sembra in contrasto con il nostro ordinamento costituzionale), come devono essere manifestate affinchè si abbia la certezza della reale volontà della persona malata?

Possono entrare in gioco differenti soluzioni. Ne indico solo alcune, tra cui sottoporre la direttiva ad un termine, decorso il quale le indicazioni della persona perdono di efficacia; dare sacralità alla forma della direttiva imponendo che siano contenute in atto pubblico e vengano redatte da un notaio; rendere obbligatorio un consulto psichiatrico per valutare la consapevolezza della scelta.

Si tratta di percorsi possibili che, volendo, potrebbero anche correre insieme.

Ma da un problema ne segue immediatamente un altro, ancor più significativo: la revoca del “testamento biologico”. Il malato che aveva chiesto di essere lasciato morire ed in un secondo momento decidesse di rimanere in vita -sebbene in uno stato di non coscienza- ha diritto a cambiare idea? E, se incosciente, come può manifestare all’esterno questa mutatio consilii?

Se si volesse dare priorità alla vita ed alla libera manifestazione della volontà del malato, potrebbe essere ammessa qualunque forma per la revoca. Dall’altra parte, una scelta in tale direzione creerebbe numerosi problematiche in tema di accertamento di una reale volontà che si muova in senso opposto alla precedente direttiva. Tuttavia, imporre la sacralità di una forma o la necessità di un ulteriore consulto psichiatrico sembra violentare il libero arbitrio del malato.

Il problema non è di facile soluzione e molti sono gli interessi contrapposti.

Credo che in questa ipotesi la scienza svolgerà un ruolo fondamentale. Da uno studio inglese è recentemente emerso che i pazienti in stato vegetativo rispondono agli stimoli. Attualmente i costi sarebbero elevatissimi ma sono certamente ipotizzabili in un futuro prossimo strumenti scientifici , in termini economicamente più accessibili, affinchè un malato possa comunicare all’esterno la propria volontà.

Purtroppo i progressi scientifici e tecnologia rivelano la loro inutilità se prima non sono chiarite le funzioni da attribuire a determinate scelte e le modalità mediante cui queste scelte possono essere modificate o revocate.


Intanto, in assenza di una legge specifica, la giurisprudenza tanto della Corte di Cassazione quanto dei Tribunali ha già fatto le proprie scelte ed opera utilizzando strumenti e rimedi che già il diritto offre.

Sono a tutti note le posizioni in merito al caso Englaro assunte dalla Corte di Cassazione. Per quanto riguarda i Tribunali, questi, sfruttando la malleabilità di uno strumento come quello dell’amministrazione di sostegno, riconoscono efficacia alle direttive anticipate di fine vita.

Tale strumento, nato per fare fronte ad una situazione di incapacità di un soggetto consentendogli di avvalersi dell’ausilio di una persona a lui vicina per compiere determinati atti giuridici che da solo non sarebbe in grado di compiere, è stato utilizzato da alcune Corti di primo grado anche in questa delicata materia.

A titolo di esempio si riporta il caso di un soggetto al quale era stato diagnosticato un male incurabile che lo avrebbe condotto fino alla degenerazione in forme di completa e totale paralisi. Onde evitare di ritrovarsi in queste condizioni, costui, in uno stato di totale lucidità e consapevolezza, nomina un amministratore di sostegno al quale è stato attribuito il compito di garantire che vengano interrotte le cure nel momento in cui la malattia avrà raggiunto il culmine del suo percorso degenerativo.

Purtroppo, se tale soluzione è in linea con la scelta ed il diritto di autodeterminazione del malato, rischia di non esonerare il medico e l’amministratore di sostegno da una ipotetica responsabilità civile e penale.


Da ciò ognuno può trarre le considerazioni più opportune.

Per quanto riguarda me, mi sento di confermare quanto detto all’inizio: le problematiche sono molte e sono trasversali a diversi settori scientifici; le questioni giuridiche si fondono e confondono con le convinzioni morali, etico e religiose di ognuno di noi.

Se una legge deve essere scritta, questa non può essere dettata dalle contingenze di un unico caso. Bensì richiede una lunga riflessione che tenga conto della validità degli strumenti che già la scienza giuridica offre; dei progressi scientifici e della loro funzionalità alla protezione dei diritti del singolo; della tutela e garanzia delle convinzioni personali di ogni cittadino: tutti elementi che concorrono a guidare il Legislatore lungo le proprie scelte.

Ed, a distanza di un anno, non abbiamo mosso ancora un passo.





13 Febbraio 2010 alle 16:52 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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