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Momenti di pensiero puro: intervista a Lele Battista

di | in: Interviste

Uno dei nomi più interessanti venuti fuori nel panorama musicale italiano negli ultimi anni? Un autore su cui scommettere per il futuro? Un musicista di cui puoi regalare un disco sapendo già in partenza di conquistare il destinatario? Uno che non abbia l’aria del depresso ma non per questo senta il bisogno di cantare cazzate? A tutte queste domande si può rispondere indicando il cantautore milanese Lele Battista, già leader dei La Sintesi e da qualche anno titolare di una splendente carriera solista. Io, perlomeno, risponderei indicando Lele Battista. Dopo aver divorato, consumato, amato il precedente “Le ombre” (Mescal, 2006), per quattro anni ho atteso con impazienza il seguito e finalmente dopo l’estate è arrivato “Nuove esperienze sul vuoto” (Mescal, 2010 – leggi la recensione qui), una raccolta di dodici nuovi brani con cui Lele riprende il proprio discorrere musicale fatto di eleganze e battiti, ascese filosofiche e maniacale cura dei dettagli, mirabile equilibrio fra tradizione e rinnovamento. E’ l’occasione per una chiacchierata con l’artista.


Cosa hai fatto in questi quattro anni? Hai sempre continuato a comporre e suonare o ti sei parzialmente allontanato dalla musica?
Tra un disco e l’altro passa sempre molto tempo perché penso che per raccontare delle cose bisogna che queste cose succedano e sedimentino dentro di me prima di essere rielaborate. La realizzazione di quest’album poi è stata molto lunga nonostante forse il disco sia il meno arrangiato tra quelli che ho fatto. Io e Giorgio Mastrocola, con il quale ho condiviso totalmente l’esperienza di questo disco, abbiamo passato molto tempo nel nostro studio a registrare più volte i brani finché non eravamo soddisfatti del risultato. Ho anche lavorato parecchio come produttore negli ultimi anni, con una serie di artisti: Yuri Beretta, Controluce, Aria di Neve, Muriel, Agrado.
Dopo aver scelto le ombre per il disco precedente, stavolta hai scelto il vuoto come tema portante delle nuove canzoni. C’è un motivo particolare? E che tipo di vuoto è quello che hai voluto rappresentare?
Con quel “nuove esperienze” nel titolo, volevo sottolineare il fatto che il vuoto non ha un solo significato, ma che in questo periodo della mia vita in cui sono sempre in movimento il vuoto acquista un significato positivo. Fissare il vuoto diventa un momento di pensiero puro.
Le canzoni sembrano essere meno immediate rispetto a quelle dell’esordio. Forse la sola “Il nido” ha un ritornello immediatamente memorizzabile. E’ qualcosa di voluto?
Scrivo molto liberamente, senza pensare al ritornello “ad effetto”. Non mi piace forzare la scrittura. Non scrivo pensando: “adesso faccio il ritornello” ma lo ricavo da una parte del testo; a volte poi rifuggo dall’idea di canzone concepita come strofa, ponte, ritornello e mi dedico a canzoni più strane e sperimentali.
Effettivamente mi sembra che la tua scrittura rifugga dagli slogan e forse anche per questo gli stessi ritornelli finiscono per essere lunghi e articolati.
In effetti spesso sviluppo quasi dei discorsi nei ritornelli. Mi è sempre piaciuto mettere nei testi alcuni riferimenti alla filosofia e in generale ho il vizio di provare anche a scrivere testi non solo viaggiando per  immagini, ma anche lavorando su ragionamenti. Mi sono sempre piaciute le canzoni in cui ti rendi conto che l’autore vuole affrontare un argomento e nelle quali c’è un discorso di senso compiuto.
A proposito de “Il nido”, puoi spiegare qualcosa in più su questa disarmante canzone d’amore?
È una canzone molto personale, diciamo una specie di serenata, con riferimenti molto semplici alla mia vita quotidiana, immagini che rimangono misteriose a chi non conosce ad esempio il luogo in cui vivo. Come dichiaro nelle note biografiche, è strano che sia diventata il primo singolo dell’album e ciò è dovuto al fatto che la Mescal ha creduto nella purezza e nelle semplicità della canzone senza badare alle logiche che dominano attualmente il mercato discografico,e questo attaccamento alla bellezza è un segnale di speranza per la musica.
Ne “L’arte di annoiarsi” canti che «è sempre l’ora di fissare il vuoto». Come mai questo (finto?) elogio del fare niente?
È una provocazione: io cerco di non annoiarmi mai in realtà, ma seguendo questo principio mi sono ritrovato a vivere una vita un po’ frenetica e piena di legami con gli oggetti, con la tecnologia, e sento che tutte queste cose in realtà mi rubano un po’ l’anima. Per questo credo  sia necessario tornare ad una condizione di vuoto purificatore. Per questo il vuoto del titolo del disco non ha un significato negativo, perché in realtà è un distacco dalla materia, un ritorno al pensiero puro.
Nelle parole e nei suoni sembra sempre molto presente un senso di continuo fluire.
Nella realizzazione dell’album io e Giorgio Mastrocola abbiamo curato molto questo aspetto, volevamo che l’ascoltatore fosse avvolto dall’atmosfera del disco: che si trasformasse in un viaggio l’esperienza dell’ascolto. Per questo abbiamo curato molto il suono dell’album cercando di renderlo morbido e non appesantendolo negli arrangiamenti ma facendo un gran lavoro di ricerca perché il suono della voce fosse sempre delicato, confidenziale. Come sottolinei anche tu, è un disco complesso e volevamo in questo modo un po’ facilitare l’ascoltatore a entrare nel nostro mondo.
Musicalmente il disco sembra proseguire sulla stessa scia del debutto. Poche differenze a livello di arrangiamenti e soluzioni. Non hai sentito il bisogno di fare qualcosa di nuovo?
Sento più che altro il bisogno di essere riconoscibile, sono anni che tento di trovare un posto all’interno di un panorama musicale che fa fatica ad incasellare quello che faccio in un genere, volevo che si intuisse che c’è il tentativo di rendere questo genere riconoscibile come qualcosa di personale, sento che ci sono delle differenze con il disco precedente e magari nel prossimo queste differenze saranno più evidenti, ma nello stesso tempo sono orgoglioso di continuare il percorso iniziato con “Le ombre”.
Il pezzo musicalmente più sorprendente è a mio avviso “Profondamente dentro”, oscuro, circolare, ipnotico.
È il primo pezzo scritto per quest’album, in un periodo per me molto creativo ovvero quello successivo alla pubblicazione de “Le ombre”, in cui mi sentivo svuotato dalla responsabilità del disco appena pubblicato e libero di sperimentare nuove direzioni, così mi sono lasciato andare e ho scritto questa canzone molto lenta e con poche parole, e ho lasciato che a cantare il ritornello non fossi io ma un freddo vocoder elettronico, in contrasto con il calore della musica che è molto avvolgente.
Quanto è stato importante il lavoro di Giorgio Mastrocola per questo disco?
Importantissimo come sempre: siamo praticamente un duo! Il fatto che io esca come solista è una formalità. Io e Giorgio suoniamo assieme da quando eravamo poco più che bambini. Assieme abbiamo fondato i La Sintesi e condiviso importanti esperienze. Lui cerca di contaminare la mia attitudine cantautorale con un modo di arrangiare più “da gruppo”. Nella scrittura siamo complementari, scriviamo entrambi e di solito ci aiutiamo a completare l’uno i brani dell’altro.
Com’è nata la collaborazione con Giò dei La Crus?
All’epoca dell’uscita del loro primo album ero un fan dei La Crus, andavo spessissimo a vederli in concerto ed ero affascinato dal loro modo di unire la canzone d’autore all’elettronica. Poi ho avuto la fortuna di conoscerli perché per un po’ abbiamo condiviso la stessa etichetta, la Mescal. Recentemente ci siamo incontrati di nuovo grazie alla partecipazione di Giò nel disco degli Aria di Neve, album di cui ho curato la produzione assieme a Paolo Benvegnù.  Successivamente mi ha invitato a duettare con lui ad un suo concerto e in quell’occasione ho notato le sue doti di attore, perché tra un brano e l’altro leggeva degli scritti, delle poesie. Così gli ho chiesto di fare questa partecipazione strana nel mio disco, in cui praticamente non canta, ma recita nel finale dell’ultimo brano, “Attento”.





1 Ottobre 2010 alle 8:46 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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