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“Una vita tranquilla” di Claudio Cupellini

di | in: Primo Piano, Recensioni


Ai giovani registi italiani Toni Servillo dovrebbe iniziare a rifiutare la propria maschera. Altrimenti non si esce da un doppio inganno: la spinta a salvare film prevedibili, sufficienti, senza guizzi, solo per lo stato di grazia dell’attore napoletano; o al contrario l’impulso a sottovalutare pellicole con una propria dignità e un proprio valore per il semplice motivo che è la bravura del protagonista a far man bassa di applausi.
Il giovane Claudio Cupellini racconta la sua history of violence appoggiandone tutto il peso sulle spalle di Toni Servillo, scegliendo di ambientare una vicenda di camorra in Germania, colorandola con la fotografia plumbea di Gergely Poharnok, buttandoci dentro un’attualità (un riferimento all’emergenza rifiuti in Campania) all’acqua di rose. Servillo, alle prese con l’ennesimo antieroe caustico, solitario e imperturbabile, offre la consueta prova monumentale, fatta di scatti misurati ed espressività ai limiti del sublime. E dà tutta l’impressione di raddrizzare una pellicola che non sarebbe riuscita da sé a sollevarsi dalla mediocrità.


Rosario è un ristoratore emigrato in Germania per sfuggire alle conseguenze della vita di camorra. Con una nuova identità è riuscito a ricominciare da capo e a farsi un’altra famiglia. La tranquillità è però messa sottosopra dall’arrivo del figlio lasciato in Campania quindici anni prima, divenuto nel frattempo egli stesso killer della camorra. Immergendo i personaggi in una natura fosca, carnivora, il regista padovano racconta come le colpe dei padri vengano ereditate dai figli – biblicamente, ineluttabilmente – e di come il tentativo di cancellare il proprio passato porti sempre a fare i conti con il sangue. Il doppio rapporto padre-figlio non viene dispiegato appieno ma risulta per forza di cose il nodo cruciale della sceneggiatura, solo sfiorato dall’elemento romantico, elemento peraltro assente nella descrizione di tutti i rapporti interpersonali del film. Abortito il romanticismo, “Una vita tranquilla” è un rabbuiato ritornello di malavita, dove il cinismo e la violenza hanno la meglio sui legami di sangue. Bisogna dare atto a Cupellini di aver saputo dosare in modo sapiente pessimismo e humor (nero) – in questo l’interpretazione di Servillo gli ha dato più di una mano – e di essere riuscito a modellare una pellicola che mai mostri il fianco alla noia o anche ad una più semplice pausa emotiva. Il ritmo si mantiene sempre agile senza essere serrato, e l’escalation di violenza è come lo spettatore si aspetta, sequenza dopo sequenza, senza sorprese. Le scelte scontate in fase di scrittura sono la mancanza che più storpia la riuscita di “Una vita tranquilla”, e questo al netto di un tonfo clamoroso dello script nella parte finale, quando Rosario, dopo essere sfuggito ai killer della camorra che volevano farlo fuori, torna all’autogrill a prendere suo figlio Mathias, mentre solo pochi fotogrammi prima si era capito che sarebbe stata sua madre ad andarlo a prendere.


Sono dunque il sapere già cosa succederà un attimo dopo e il retrogusto di già visto a impedire al film di procedere con una personalità propria. I fruscii e l’elettronica minimal di Theo Teardo (che ha già scritto le musiche per “La ragazza del lago” che aveva per protagonista, guarda caso, sempre Toni Servillo) non aiutano ad allontanare la fastidiosa sensazione di déjà vu.

Si citava “History Of Violence” ad inizio recensione. Che Cupellini non sia Cronemberg sarebbe sciocco e oltremodo ingiusto sottolinearlo. Ma prendendo a modello il maestro canadese, che pure con “History Of Violence” non ha scritto una delle pagine migliori della propria filmografia, si capisce come “Una vita tranquilla” non sia altro che il contenitore di una storia. Quello che preme a Cupellini è svelare poco a poco il segreto del protagonista, quella ferita appena beante tra un passato torbido e un presente edulcorato. Mai, in nessun momento del film, si ha l’impressione che quel segreto sia il pretesto per raccontare/mostrare altro. Deriva da qui l’incapacità di disturbare veramente: accese le luci in sala, la tensione impiega un attimo a svanire. E un thriller che non disturba non è che un film di genere. Il Cinema – quello con la C maiuscola – è un’altra cosa.




8 Novembre 2010 alle 13:33 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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