Benvenuto e Buona Navigazione, sono le ore 15:48 di Gio 9 Mag 2024

Baby Blue “We don’t know”

di | in: Primo Piano, Recensioni

Etichetta: Trovarobato

Brani: Don’t ask me why / Oh Marie / Shut up / I don’t know / Hey baby hey / Earthquake / Stay a while / All right / Down / Porto Palo


Sarebbe stato uno sbaglio concludere questo duemiladieci senza spendere qualche riga sull’ultimo “We don’t know” dei Baby Blue. Album secondo, che segue al buon “Come!” (2009), e che trova i quattro pratesi alle prese, finalmente, con una maturità ed una convinzione stilistica nuova. Di passi avanti in questi anni ne son stati fatti: la collaborazione con Benvegnù è stata indubbiamente manna dal cielo per i giovani toscani, messi fin da subito nella possibilità di crescere  sotto la guida di uno dei più rispettabili artisti contemporanei nazionali; i consensi critici seguiti ai loro prodotti hanno creato negli anni non poca curiosità intorno al gruppo che, oggi, compie finalmente lo step: passaggio a Trovarobato, nuove collaborazioni (l’album è coprodotto da Alessio Pepi dei Dilatazione) e nuovo mood, cresciuto e maturo, capace di far forza sulle caratteristiche giocose che avevano contraddistinto l’esordio, calcandole, tuttavia, in una dimensione assai più sentita e ricercata.

Dieci canzoni decisamente varie tra loro, ognuna caratterizzata da continui sbalzi umorali. I riferimenti si consumano nelle citazioni illustri: la sensualità accattivante di Pj Harvey in “Oh Marie” e il romanticismo ruggente di Janis Joplin o Scout Niblett in “Shut Up”; le esplosioni distorte di Kills e Yeah Yeah Yeahs in “Eartquake” ed i monologhi sovrapposti stile White Stripes in “Down”. Ogni canzone sarebbe da focalizzare con attenzione, tanto è forte e meritevole la cura dei dettagli (sintomo di un lavoro intelligente in produzione). Serena e Mirko sono giovani e belli. Non eccedono in nulla, sia chiaro, ma hanno (e la hanno sempre avuta) una freschezza genuina ed un saper-godere-della-musica invidiabile. “We don’t know” non è un capolavoro: la sua ostinata convinzione nel variare in modo fantasioso alti e bassi, la sua disposizione a rallentare e ad accelerare a tratti estrania e manda alla deriva la necessità di un riferimento fisso per l’ascoltatore. Eppure non si possono negare episodi perfetti, soprattutto ad inizio album, che rendono il disco quasi un prodotto artistico d’altri tempi: passatista nella sua dimensione sonora (tra rimandi blues, wave e post-punk), ma soprattutto per la cura e la testarda ricercatezza espressiva: continui cambiamenti di registri e ribaltamenti emotivi creano un quadro giovane ed inquieto, strafottente ed ostinato nononstante il rischio di mostrarsi poco esplicito e oscuro.

Un album nel complesso difficile da digerire a primo ascolto, che compie delle scelte (come un ragazzo che cresce, tira le somme e segna sulla sua mappa un percorso nuovo). Un album che richiede pazienza. Abbiatela. Può piacere o meno. Si va controcorrente. Ed è bene così.




7 Dicembre 2010 alle 13:50 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

Ricerca personalizzata