Benvenuto e Buona Navigazione, sono le ore 16:14 di Mer 1 Mag 2024

Il potere indisciplinabile della scrittura

di | in: Interviste

Marco Mancassola (foto di Pierantonio Tanzola)

Intervista a Marco Mancassola, autore di “Non saremo confusi per sempre”, pubblicato qualche settimana fa da Einaudi nella collana “I coralli”.


“Non saremo confusi per sempre” (leggi la recensione) è un libro in cinque movimenti, ciascuno dei quali dedicati ad un fatto di cronaca che ha inciso la nostra memoria collettiva, ferendola e compattandola attorno al peso insostenibile di una giovane e innocente vita spazzata via. Dirk Geerd Hamer, ucciso da un colpo sparato da Vittorio Emanuele di Savoia, Alfredino Rampi, morto a soli sei anni in un pozzo artesiano, Eluana Englaro, morta per l’interruzione della nutrizione artificiale dopo aver passato diciassette anni in stato vegetativo, Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido dalla mafia, Federico Aldrovandi, pestato a morte da quattro poliziotti: sono loro le storie che hanno smosso la soglia del dolore del nostro Paese e che Marco Mancassola ha scelto per comporre il suo mosaico di inaccettabili strazi e inattese meraviglie.


Mi piacerebbe che iniziassi dicendo qualcosa sulla genesi e sul progetto di “Non saremo confusi per sempre”. Le storie sono state scritte insieme? C’è stata una storia pilota che ti ha dato l’idea per proseguire nello stesso senso? Avevi in mente sin dall’inizio di regalare finali pacificati a delle storie tragiche?
Un giorno scoprii che la storia dello studente tedesco ferito a morte all’Isola di Cavallo, storia che mi aveva sempre colpito, si intrecciava a quella di un famoso medico eretico. Il medico era il padre dello studente. Nello stesso periodo mi era stato chiesto un reading di un testo inedito in un auditorium a Venezia. Scrissi la prima versione di Un principe azzurro [titolo del primo movimento, dedicato a Dirk Hamer, ndr], e fu il buon esito di quel reading, la sensazione che il pubblico fosse rimasto ipnotizzato, a suggerirmi che potevo scrivere altri racconti con lo stesso schema. Famosi fatti di cronaca e virate immaginarie che rovesciano o “allargano” il senso della cronaca. Non sono un giornalista, sono un narratore: la cronaca per me ha senso come leva per qualcosa di ulteriore.
Come puoi definire l’oltre che c’è alla fine di ogni storia?
Un’apertura, un esempio di un altro possibile. Le storie di questo libro non negano la realtà, soltanto suggeriscono che noi non sappiamo tutto. Dopo che un fatto tragico è successo, una delle violenze è chiudere per sempre qualcuno nelle categorie della cronaca giornalistica: vittima, caso morboso, icona dell’infotainment. In modo speculare, noi veniamo ridotti al ruolo di spettatori, consumatori seriali di news. Una persona è sempre qualcosa d’altro. Una persona è inesauribile, inconsumabile, è un abisso di sogno, strati e strati di esperienza.
Hai scelto una scrittura molto misurata. Usando la metafora di una chitarra, sembra che tu abbia scritto questo libro arpeggiando.
Stilisticamente, non dovevo dimostrare nulla a nessuno. Dovevo piuttosto mettere la lingua al servizio di queste storie, di questi personaggi, e ho optato per quello che chiamo “minimalismo visionario”. Arpeggiando, sì, ma con scariche di chitarra elettrica qui e là.
Il racconto dedicato alla vicenda di Giuseppe Di Matteo è più lungo e articolato degli altri. C’è un motivo particolare?
A volte una storia lievita tra le mani. In questo caso il merito è del personaggio di Silvia, la ragazza ossessionata dalla morte del compagno di classe, del suo viaggio tra mafia, supereroi, rimozione del sesso, riti musicali degli anni Novanta, cliniche psichiatriche. In pratica un piccolo romanzo di formazione.
Quella di Alfredino è una vicenda che, oltre te, ha suggestionato tanti. Diversi autori ne hanno parlato negli ultimi anni, addirittura Walter Veltroni nel suo recentissimo libro. Quale credi sia stata la molla che abbia permesso a questa storia di imprimersi in modo così forte nella memoria collettiva?
Non ho letto ancora il libro di Veltroni. Lo farò, anche se ho il sospetto che la sua strategia, come già nel libro sull’Heysel, sia richiamare un “effetto vintage del dolore”. Del tipo, come eravamo puri e come siamo stati traditi. Un discorso che denota il politico prima ancora che l’autore: post-sinistra fallita. A me, più che scavare nel dolore del passato interessa forse sovvertirlo, contaminarlo col potere indisciplinabile della scrittura, della fantasia letteraria. Io sono uno scrittore. Io sono uno scrittore. So che può sembrare un delirio narcisistico, ma di questi tempi è un distinzione fondamentale.
Quella di Alfredino ma anche quella di Dirk Geerd Hamer sono storie che risalgono a molti anni fa. Ripercorse e rilette a distanza di tempo credi che questi fatti di cronaca nera abbiano in qualche modo contribuito a definire l’identità nazionale di oggi?
Alfredino è una storia di archetipi, il buco, la terra che inghiotte, il bambino perduto, noi qui sopra, e lui là sotto. È una storia di dolore irreversibile: come può succedere una cosa simile a un bambino? Nel 1981, per la prima volta questa domanda diventa oggetto di diretta televisiva. Io non ho ricordi di allora, avevo otto anni, non ho davvero alcun ricordo di quei giorni, ma ho conosciuto la storia attraverso i suoi echi successivi. Come la storia di Dirk Hamer, datata 1978. L’identità nazionale di un paese drammatico, melodrammatico, fantasmatico, mediatizzato, dipendente dal trauma continuo come da una droga, certo si definisce anche attraverso storie simili.

Puoi dire qualcosa sull’inatteso (troppo buonista?) finale e sulla cultura del reality che è quella della sedicente verità, una cultura che è a mio avviso all’estremo opposto rispetto ad un’opera letteraria come è a tutti gli effetti “Non saremo confusi per sempre”, che, pur non rinnegandola, sembra prendersi gioco della verità in nome del diritto all’immaginazione creativa?
Non vedo cosa ci sia di “buonista” nel finale, dove una persona uccisa di botte dalla polizia trova infine la via d’uscita dal limbo in cui si trova. Il percorso di varia gente ammazzata dalla polizia passa attraverso un “ghost show” interno al Grande Fratello: sono le due gioventù complementari del decennio passato e per questo le ho fatte convivere. La gioventù patinata che si offre come carne da macello per il sistema spettacolare e la gioventù massacrata nei vicoli dalla polizia. Lo spettacolo, come la tecnica di Heidegger, non si evita ma si attraversa…
Cosa pensi della deriva poliziesca che sta caratterizzando la nostra epoca e di cui quello di Aldrovandi è solo uno dei casi più eclatanti?
Tutto oggi viene ridotto a questione di ordine pubblico, se giri di notte trovi uno stato d’assedio, un posto di blocco fuori da ogni locale. Ma l’inquietudine esistenziale che cova sotto le ceneri della società è ormai gigantesca, e il sistema ha i nervi a fior di pelle. Lo si vede, più ancora, nella repressione violenta delle manifestazioni. In tutto questo fa gioco tenere le forze dell’ordine senza adeguati stipendi, senza adeguata formazione, lasciare che sempre più professionisti dell’ordine si trasformino in vigilanti dal manganello facile. 
Sono passati dieci anni dall’uscita del tuo primo romanzo. Non so se tu sia uno bendisposto a guardare a ritroso e a parlare in termini di bilanci, ma potresti per un attimo pensare ai tuoi libri pubblicati in questi anni e dirmi che tipo di percorso autorale vedi?
Ho sperimentato, mi sono tirato indietro dalle etichette – lo scrittore di storie giovanili, lo scrittore gay, lo scrittore “escapista” o lo scrittore tutto impegnato. Crescere per me significa imparare a non somigliare a nessuno. Detto questo, sono contento di aver trovato un buon successo in Francia e attendo l’esordio in Gran Bretagna. Ho ancora un sacco di lavoro da fare. Rispetto al mio paese, non so: scrivo in italiano, sono italiano, eppure mi sento un alieno.





13 Agosto 2011 alle 15:58 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

Ricerca personalizzata