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Popsophia: la filosofia ai tempi di Lost

di | in: Cultura e Spettacoli, Primo Piano

Simone Regazzoni

Simone Regazzoni sviscera il mondo dell’isola perduta


CIVITANOVA MARCHE – La prima serata di ieri al Chiostro di Sant’Agostino vede il ritorno di Simone Regazzoni, il pop filoso che indaga la fiction alla stregua di un’opera d’arte. In questa seconda puntata il filosofo offre una interessante chiave d’accesso per perdersi nell’oscura isola di Lost.

Ma cos’è Lost? Cos’è l’isola?

Regazzoni introduce il suo naufragare tra i naufraghi precisando che la fiction, e questa in particolare, per dirla con Benjamin, ha la stessa dignità dell’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità seriale. È arte in quanto messa in opera della verità. La fiction è narrazione utilizzata per strutturare la realtà e, dal momento che il nostro rapporto con il reale è sempre mediato da una forma di narrazione, la finzione è già nella verità che viviamo.

Lost mette in scena più dell’immaginabile e nel farlo apre strade e mondi, lascia dischiuse porte oltre le quali quel che si cela diviene indagine rimessa agli spettatori. È dunque nel ventre di questa massa dalle mille forme che si stratificano interpretazioni. Ma andiamo con ordine.

Cos’è l’isola di Lost? Certamente un topos letterario (vedi Robinson Crusoe) e filosofico (Atlantide di Platone) ma con molte differenze rispetto a quanto già è stato scritto. Essa non è né un luogo dove ricreare una società partendo da un grado zero di civiltà, né lo spazio di un mondo utopico, perfetto ed autosufficiente come ne la Nuova Atlantide di Bacon. Essa è emblema di un non-luogo dove i naufraghi sono occhi negli occhi con quella perdita di mondo che ne accomuna le sorti e fa si che sia la morte ad essere comune raccordo delle loro solitudini. È una non-società per dirla con Lindelof , uno dei padri della serie.

L’isola è un sistema complesso ed è subito evidente. La serie si apre con l’occhio di Jack che si schiude e annuncia così che la realtà è qualcosa che si manifesta a partire da un punto di vista. Questa scena infatti sarà replicata per tutti i personaggi: l’instabilità non ci permette di distinguere sogno e realtà, vero e falso. È tutta una allucinazione o sta accadendo davvero? Interrogativo caro a Cartesio, il mondo al di fuori dell’isola esiste ancora?

Perdiamo l’idea di mondo come unità. Ma oltre l’interpretazione filosofica di questo luogo, oltre al fatto che essa esista o no e cosa rappresenti, certo è che se parliamo di isola facciamo riferimento ad una superficie più o meno estesa circondata dall’acqua. Ergo mappandola siamo in grado di muoverci in essa, studiarla, conoscerla. È questo il ragionamento di Jack, colui che vuole servirsi della propria razionalità per conoscere la verità. Ma così non è. L’isola si ribella ad ogni chiave di lettura che nasca dal percorrere le strade finora utilizzate per conoscere il vero. Essa infatti si trasforma continuamente, è instabile ed i naufraghi non possono che perdersi. È da questo smarrirsi che si scopre l’inaspettato. Eppure il territorio è composto solo da una spiaggia e una selva: una radura, aperta, luminosa e un luogo oscuro. A ben vedere sembrerebbe questa una metafora tratta da Heidegger: la verità è la radura del non-nascondimento, un mondo che cela in sé il mistero. Alcune verità sono fruibili solo a partire da una condizione di buio; un esempio ne è il cinema che necessita del buio per rendere visibile la pellicola.

È perdersi in questa selva l’unico sistema per abitarla, è lasciarsi trasportare dal movimento oceanico di comunione con il tutto, Freud docet.

Dunque la verità nel senso tradizionale del termine è messa in crisi: si approda all’enigma della verità. Ma tale astrusità non può essere sciolta: l’isola non è un rompicapo perché è “semplicemente” non risolubile.

È possibile indagare la verità utilizzando altri logos? Si, ma la verità a cui approderemo è sempre uno spazio esiguo tra incompletezze. Il vero in quanto assoluto non è conoscibile né per i losties né per chi opera al di la del tubo catodico. Gli sceneggiatori stessi non sono narratori onniscienti; essi hanno dato vita ad un organismo che si nutre da sé. L’isola si declina nei modi di dirsi dell’isola, a partire dai personaggi incarnazioni di interpretazioni del vero. “Esistono tanti occhi quante sono le verità, ergo nessuna verità”: il sistema corrispondentista è morto, ad X esperibile non corrisponde più Y presente nella nostra mente.

Siamo dentro un altro paradigma di verità in cui perdersi è l’unico modo per falsificare il vero. Dunque cosa resta? Il rapporto fraterno tra naufraghi? No, nemmeno questo. La costruzione del rapporto tra essi è conflittuale, difficile, negoziale, violenta: l’altro è perturbante, percepito come volto amico dietro il quale si nasconde la tenebra, la stessa che avvolge l’isola. Ciò che resta è solo il legame amoroso, quell’eterna possibilità di dire no, quella stabile instabilità tra l’esserci e il perdersi. “Il mondo è perduto e io ti devo portare”.




1 Agosto 2011 alle 20:12 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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