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“L’underground è la mia casa”: intervista ad Alessio Arena

di | in: Interviste

“La letteratura tamil a Napoli” (Neri Pozza, 2014)

“La letteratura tamil a Napoli” racconta una città di grotte e canali, invisibile, labirintica, sotterranea. Alessio Arena, al suo terzo romanzo, dipinge con una prosa scoppiettante e surreale una Napoli nascosta, pregna degli odori e del chiasso degli immigrati cingalesi. Abbiamo intervistato lo scrittore partenopeo (ma trapiantato a Barcellona), incuriositi dall’originalità del romanzo ma anche dalla sua poliedrica vena artistica. Oltre a scrivere, infatti, Alessio fa cose come strabiliare con le sue canzoni lo Sferisterio di Macerata e vincere Musicultura.

 

Perché un romanzo così, letteralmente, underground?

Perché l’underground è la mia casa, perché non sono uno scrittore conosciuto, perché nei riversi delle città in cui vivo, nelle loro zone d’ombra se ne sta, accovacciata, una preziosa alternativa alla loro realtà aperta alla luce del sole. E infine, perché uno dei libri che cominciò a rendere più appassionanti le mie letture adolescenziali fu “The Subterraneans” di Kerouac.

Perché la società cingalese?

È tra le maggiori comunità di immigrati a Napoli. Conformano una nuova città, la colorano come non era ancora stato fatto, la profumano in maniera inedita. Fin dalla seconda metà degli anni novanta mi ero abituato a vedere per strada, nel mio quartiere, questa gente sconosciuta, sempre con lo sguardo basso, la cui caratteristica più evidente era un’educazione, una gentilezza sincera. Quando, crescendo, ho cominciato a scoprire cosa li avesse portati in Italia, quando ho individuato le loro storie, spesso di una drammaticità inaudita, ho creduto che fosse necessario per me raccontarle.

Possiamo dire che la fantasia e l’eccentricità sono i punti di forza del romanzo?

Possiamo. Ma sta di fatto che un romanzo che sfiori anche solo superficialmente la storia attuale o il passato di una città come Napoli non potrebbe rispondere ai canoni di un rigoroso realismo. O per lo meno a me non interessa raccontare storie attingendo a larghe mani dalla realtà. Lo trovo di una noia intollerabile. Un romanzo deve proporre un’alternativa, deve far intravedere un’ipotesi anche lontana, diversa dalla realtà dei fatti. Non sia mai che poi questo serva per reagire alla vita, che un libro ci faccia tornare nel mondo con una forza maggiore e una più spiccata consapevolezza, per cambiarlo.

Che lavoro hai fatto sulla lingua italiana?

Cerco di lavorare sempre sulla lingua, e ho tentato di farlo soprattutto per questo romanzo, dove a “farla parlare” sono i nuovi italiani, persone venute da un contesto culturale e geografico molto lontano dal nostro, ma che con il tempo hanno poi adottato nuove forme di esprimersi, spesso dando la precedenza alle altre lingue che girano attorno all’italiano, prima fra tutte il napoletano. Quella che considero la mia lingua madre è di certo una lingua bistrattata, oltraggiata dalla televisione, dallo stuolo di epigoni di Saviano, dal resto degli italiani che la associano a dialetto di malavita, a detestabile gergo di decerebrati che avvelenano la propria terra e diventano famosi uccidendosi l’un l’altro. I tamil del mio romanzo (ma anche molti della realtà cittadina) parlano invece un napoletano che è anche poesia, è anche e soprattutto eleganza, istinto di sopravvivenza, meraviglioso sincretismo di linguaggi autoctoni e d’oltremare.

Ci sono dei testi e degli autori che hai avuto come riferimento per il romanzo?

Potrei stare ad enumerarne all’infinito. Anche perché, durante gli anni in cui mi sono documentato sulla base della realtà trasfigurata da questo romanzo, ho letto il più possibile, soprattutto opere che esacerbassero il “problema” dell’emigrazione dei popoli, che ne raccontassero le specificità più moleste. Io, ovviamente, ho voluto dire l’esatto contrario. L’idea del libro, in ogni caso, è nata quasi come una “cover” di una delle prime cose scritte dal Roberto Bolaño, “La letteratura nazista in America”. Il mio riferimento principale è sicuramente lo scrittore cileno, anche se la mia massima aspirazione resta ancora riuscire a scrivere almeno un periodo che possa vagamente ricordare il suo stile. Ma ci sono altre “citazioni” nel libro, Anna Maria Ortese, un po’ di Niffoi, che ammiro tanto, e anche parecchio lontane, come il finlandese Arto Paasilinna, dal quale ho tentato di imparare un dosaggio più misurato dell’intreccio. I suoi libri sono tutti godibilissimi, non stancano mai il lettore.

Oltre che scrittore, sei autore teatrale e musicista. Con quale forma artistica ti trovi maggiormente a tuo agio?

Immagino possa sembrare strano letto così, ma io non faccio quasi distinzione tra una forma e l’altra. Chi ha letto qualche mio romanzo avrà trovato rimandi musicali ogni due tre pagine, chi ascolta le canzoni che scrivo e canto potrebbe riconoscere in esse un certo spirito narrativo del testo. Il teatro è forse la sintesi di tutto. Mi piace affidare un mio testo a un regista e non partecipare in nessun aspetto della messa in scena. Il giorno del debutto, poi, è sempre una bella sorpresa.

Con la tua musica l’anno scorso hai vinto Musicultura. Che ricordo hai di quel riconoscimento?

Un’esperienza davvero indimenticabile. Io faccio parecchia fatica per portare avanti la mia musica, tra la Spagna, dove vivo da più o meno sette anni, e l’Italia. Ma ogni qual volta posso contare su una persona nuova che segua la mia musica, che venga ai concerti, sono ripagato da qualsiasi sforzo. Immagina dunque cosa sia stato cantare allo sferisterio di Macerata, la notte finale del concorso, dove di gente ce n’era davvero parecchia. A Barcellona, che è diventata la mia casa, molto di più di quanto non lo sia mai diventata (purtroppo) Napoli, collaboro con molti musicisti, giovanissimi, di grande talento, che hanno suonato anche nel mio primo album, “Bestiari(o) familiar(e)”, uscito da qualche mese anche in Italia e distribuito da Audioglobe. Il fatto che non smette mai di stupirmi è che i musicisti non leggono, o leggono pochissimo, non conoscono i nuovi scrittori. Questi ultimi, in termini di musica, invece, sarebbero capaci di disquisire su Carmina Burana, la cantata scenica composta da Carl Orff, ma spesso – è un dato di fatto – non conoscono la musica attuale, le produzioni indipendenti. Insomma, io non so cosa fare: spesso mi sento in uno spazio vuoto, da solo, tra gli uni e gli altri.

Rimanendo ai premi, “La letteratura tamil a Napoli” è arrivato secondo al Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza, ad un solo punto di distacco dal primo classificato, “La ricchezza” di Marco Montemarano. Hai letto il romanzo di Montemarano? Ti è piaciuto?

Bella domanda. Non solo l’ho letto, ma l’ho addirittura comprato. E l’ho apprezzato, certo. La sua storia, secondo alcuni membri della giuria, era più idonea per quel premio, niente da fare, anche se, lo scarto di un punto farebbe pensare a un dibattito protrattosi fino alla decisione finale. Di quella sera ricordo lo sguardo di mio padre, seduto qualche fila più in là da me, nel Teatro Olimpico di Vicenza. È stato lo sguardo più rassicurante che potesse improvvisare. Per fortuna, premio o non premio, ho trovato nel mio editore un largo appoggio e affetto. E poi, se non altro, non avendo vinto, ho potuto liberarmi dall’offrire il caffè a tutti gli amici, che mi aspettavano a Napoli e a Barcellona, come dei dannati.




21 Ottobre 2014 alle 15:52 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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