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LA GRAPPA

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23 nov 2009 – Devo cambiare.

Mi sono detto così perché , a forza di pensare all’incredibile  momento politico italiano che dura da quasi vent’anni, mi sta venendo l’ulcera e non riesco più sopportabile nemmeno agli amici. Quando ci vado assieme e quello che dico invariabilmente mi porta a parlare dei fatti italiani di politica interna percepisco di una sempre più marcata loro insofferenza.

“ Rieccoci!” dicono, non fingendo più  ”non ci puoi perdonare per stasera?”

“ Scusate” ho risposto l’ultima volta che ci siamo incontrati con le rispettive consorti in una trattoria, proprio sabato scorso “ è più forte di me. Avete ragione, parliamo d’altro. Sto leggendo l’ultimo libro di Camilleri, La danza del gabbiano, l’avete comprato? E’ della serie del commissario Montalbano”

“ No “ hanno risposto

“ Pensateci , prima di farlo. Ormai scrive totalmente in Siciliano. Non più come una volta, ad intercalare simpatiche frasi o modi di dire dialettali sulla struttura del racconto costruita in italiano: tutto in siciliano ormai, tutto con l’unica eccezione di quando fa parlare Livia la fidanzata del poliziotto che è nordica. Se la facesse parlare in Padano, eviterebbe discriminazioni…”

“ Franco” mi hanno interrotto “ non ce ne frega un niente (non è questo il termine esatto che hanno usato) di Camilleri e di Montalbano e di questa Livia. Franco, ci importa di te, invece : quando apri bocca è solo per criticare, ricadi subito in politica senza nemmeno accorgertene, da due anni sputi  fiele, parli solo del  sovrano e della sua corte, sembra esserti sfuggito dalla testa qualsiasi altro argomento “normale”. Calmati.”

Mia moglie, che in questi frangenti mi supporta sempre, ha detto:

“ Giusto! Rompi le palle! Adesso te lo dicono anche gli amici!”

Mi sono sentito in un angolo, mortificato e in apprensione perché tengo alla loro amicizia, alla loro compagnia e a non interrompere i nostri incontri plenari quasi settimanali qui nella città di Santomartire o nella vicina Perla.

Ma non le ho fatte vedere,  la mortificazione e tantomeno l’apprensione, ai vigliacconi, tutti contro uno.

“ Puttani “ ho detto rivolgendomi agli astanti maschi “ allora, visto che stiamo per bere il bicchierino della staffa e avete voluto ordinare grappa per tutti, chi di voi sa come si beve la grappa veneta, eh, chi di voi sapientoni lo sa?”

Il mio tono improvvisamente goliardico, il trasferimento  di una possibile conversazione su un argomento diverso e più leggero di quelli che intavolo generando tensioni, li ha solleticati.

“ Noi maschi, qua, siamo tutti delle Marche sporche e la grappa la beviamo come beviamo l’anisetta Meletti: nel bicchierino di vetro, magari buttandola giù d’un colpo!” ha detto Mic(c)hele e sua moglie Angiolina, che gli sedeva accanto, ha fatto di sì con la testa subito:

“ Proprio così! Così!” ha ribadito guardando rapita il marito ( invidio il loro affiatamento).

“ Nella tazzina del caffè ancora calda? ” Ha buttato là Pelvio che gestisce un ristorantino di solo pesce, fantastico menù unico a prezzi imbattibili. La moglie Cristiana, donna eccezionalmente pratica con trascorsi di grande valenza politico-territoriale, ha scosso il capo dicendo:

“ No, Pelvio, non mi sembra regolamentare: Franco allude certamente alla metodologia tradizionale veneta di assunzione del liquore…”

Le ho sorriso per ringraziarla : “ Sì, Cris, è così…”

“ Può essere che ti stia riferendo ad un determinato numero di sorsi correlato al volume di liquido?” Ha chiesto Claudio-pitagorico, matematico professore in pensione mentre la moglie Pia, proprietaria di un gran numero di appartamenti  aggiungeva : “ Me l’offrono spesso quando passo a incassare gli affitti, ma io non bevo e tengo stretti i soldi senza distrarmi!”

“ Mi piace la grappa e non mi frega come la bevono i veneti” Ha sentenziato Silvestro, professore di musica , anche lui in pensione (la cui voce è  come lo strumento prediletto, flautata) mentre la religiosissima consorte Pina chiedeva, timida, se in Veneto usassero la grappa al posto del vino nella Santa Messa.

“ Diccelo, dai ” ha detto l’amico Piero (proprio  lui che non vuol dire a nessuno cosa significhi  quel tatuaggio che ha sul braccio: un cuore con una freccia a trapassare e due sigle di tre lettere ciascuna agli estremi del dardo).

“ Diccelo!” ha intimato sua moglie Saila, atleta indefessa oltre che scrittrice raffinata, che aveva appena terminato , armeggiando sotto il tavolo, di sostituirsi le scarpe con un paio di scarpini perché  sarebbe tornata a casa correndo senza approfittare della vettura del marito.

“ Va bene, va bene ve lo dico” ho acconsentito:

“ La grappa veneta si beve con la bocca! ” .

L’enorme e variegato numero di epiteti che mi hanno lanciato mi ha portato ad iniziare subito la vera puntualizzazione. Mi sono messo a parlare, per la verità anche un po’ forbito per dare importanza all’argomento, proprio mentre si avvicinava il cameriere con il vassoio dei bicchierini su cui troneggiava una gran bottiglia di liquido incolore.

 

La grappa me la mandano ogni anno degli amici che ho al nord, dalla provincia di Pordenone.

Ci sanno fare con gli alambicchi, hanno imparato dai loro vecchi e qualcuno sta già insegnando ai nipoti. Scartato il primo distillato, se ne assaggiava il “cuore” : un intero bicchiere  colmo di grappa calda, assaggio di conferma della qualità per l’annata da invecchiare.

Quando stavamo assieme, dopo l’assaggio andavamo subito a dormire per due ore filate su brande appositamente preparate vicino all’alambicco.

Vivevo da quelle parti , ci si frequentò inizialmente per questioni di lavoro: gli amici capirono subito che conoscevo l’arte. Del bere, s’intende. Ed è un’arte che abbisogna di una lunga applicazione ed io era da  tempo che mi applicavo.

Non avevo vent’anni quando, durante il servizio militare, avevo iniziato a  frequentare una cerchia di vecchi artiglieri  da montagna del Gruppo Osoppo, là in quel di Pontebba dove c’è il sole per tre ore al giorno e per il resto del tempo l’ombra dei fondo valle angusti circondati da monti alti.

Si restava in silenzio a lungo ( perchè parlando si rischia di far capire quanto si possa essere stupidi), seduti sulle brande in una stanza accanto alla stalla, senza nemmeno tentare di nascondere la stanchezza dopo quattro ore di guardia notturna a cento muli di prima categoria, brave bestie di grossa stazza, profumate, su cui al mattino caricavamo gli obici da 105/14.

I muli hanno due caratteristiche pregnanti: non posseggono un cono di visibilità laterale ampio e sono “ombrosi”. Hanno due reattività istintive, i muli: prima di defecare alzano vistosamente la coda ma , essendo “ombrosi”, se  percepiscono presenze (“ombre”) sul posteriore-laterale le considerano sempre potenzialmente pericolose per cui, invece di defecare, si librano sugli anteriori e  scalciano forte, molto forte.

Noi artiglieri da montagna vivevamo in simbiosi coi nostri muli.

Quando li accudivamo nei turni di notte, dopo la pulizia del manto (spazzola dura, 10  colpi nel verso e 10 in contropelo per non ricordo quante volte su ogni parte in cui è suddiviso il corpo della bestia),  i singoli componenti la squadra di guardia si ponevano con una pala direttamente dietro i muli assegnati in controllo,  a una distanza  inversamente proporzionale al livello d’esperienza acquisito.

Ciò consentiva di raggiungere tre obiettivi utili: non permettere alle bestie di sdraiarsi a terra per riposare  ( devono restare per tutta la vita in piedi, così evitando di danneggiarsi gli arti assumendo altre posture); raccogliere al volo con la pala gli escrementi quando defecavano, così da non dover poi ripulire il pagliericcio su cui stazionavano nella grande stalla; effettuare continuativamente movimenti quasi ginnici da un mulo all’altro,  così combattendo, particolarmente in inverno, il freddo notturno.

Il problema non trascurabile che i movimenti con la pala sul posteriore delle bestie portassero nel cinquanta percento dei casi queste ultime ad alzare la coda per scalciare e non per evacuare, ci teneva assolutamente svegli, vigili. Nelle furerie della caserma avevano fatto dei quadri con le fotografie di ragazzi cui una cicatrice terrificante  a forma di ferro di cavallo (di mulo) si dipartiva dall’angolo della bocca imponendo un tragico sorriso.

Ci facevamo vicendevolmente  compagnia, coi nostri muli, nelle passeggiatine in montagna – ah, quindici-venti chilometri non di più – giusto un allenamento, per poi lanciarci in camminatine di trentacinque-quaranta chilometri , preferibilmente nei giorni di pioggia, fango sui tratturi e roccia scivolosa nei camminamenti.  Ci aggrappavamo alle loro code quando eravamo stremati e capivamo che i muli, più stremati di noi, non avrebbero scalciato. Raggiungevamo mete agognate, attese, sognate; come gli avamposti d’artiglieria, in alta quota, della prima guerra mondiale: un piacere immenso.

Si restava in silenzio a lungo, dunque,  nei momenti di riposo delle notti di stalla, guardando fisso davanti  in attesa che  il più alto in grado prendesse la bottiglia della grappa ed iniziasse a farla circolare.

Non puoi fare il furbo, il sorso dev’essere breve ed è gradita l’intensità mentale indotta, la “pensosità” e lo sguardo di rispetto nell’approccio. La bottiglia, meglio il bottiglione, va tenuta per il collo così da non incidere sulla temperatura del liquore e da non sporcare l’etichetta  che ne avvolge l’intero corpo perchè là va segnato, con una linea, il livello di rimanenza del liquido ed il riferimento della squadra di guardia che ha bevuto.

Tolto il grosso tappo di sughero, ogni bevitore , prima di portarsi la bottiglia alle labbra con una mano, pulirà l’orifizio col palmo dell’altra e si passerà il dorso di quest’ultima sulla bocca facendo attenzione a non inquinare il tappo stretto tra l’indice ed il pollice della stessa.  E’ prassi, una volta che la grappa sia in bocca, che il bevitore alzi gli occhi al cielo riversando un  po’ la testa all’indietro (una sorta di ringraziamento al proprio dio)  e  faccia circolare il liquore sulle pareti del cavo orale (lentamente e non a mo’ di sciacquo); poi, socchiudendo appena le labbra,  lo lasci scendere in gola evitando assolutamente il gargarismo.

Ai vecchi, c’è da dire, è concesso (senz’ombra di sopportazione) anche un leggero rutto di soddisfazione espressa.

Infine, l’atto “esperto” del bere la grappa, una vera e propria funzione religiosa, una messa, termina con due precise gestualità contemporanee prima di passare ad altri il bottiglione: ripulitura colla mano e chiusura col  tappo dell’orifizio della bottiglia (per cui ogni bevitore, prima dell’assunzione, avrà l’orifizio pulito due volte); forte contatto della lingua sul palato che la grappa buona deve lasciare perfettamente deterso e secco e produzione, a seguire l’apertura veloce e “meccanica” della bocca, di uno schiocco naturale.

Più vibrante è lo schiocco più è accreditato il bevitore e più cresce nello stesso l’autostima. “


Gli amici mi hanno guardato in silenzio. Si sono guardati fra loro.

Poi Piero ha detto al cameriere, che era rimasto lì a sentire, di portare indietro i bicchierini lasciando sul tavolo la bottiglia.


FDA




27 Novembre 2009 alle 3:18 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |
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