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“I gatti persiani (No One Knows About The Persian Cats)” di Bahman Ghobadi

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Atto d’amore alla musica e al suo sogno irriducibile, “I gatti persiani” segue con piglio iperrealistico – sconfinando nel documentaristico – le vicende di Negar Shaghaghi e Ashkan Kooshanejad, una coppia di musicisti appena usciti dal gabbio e decisi a metter su una band con cui fuggire dal proprio Paese.
Indie-rock” continuano a ripetere, come un monito di appartenenza ad una tribù, lì, nel sottosuolo di Teheran, underground in un’accezione mai così letterale. Vagano per cantine, tetti, stalle, ovunque qualcuno insegua di nascosto lo stesso sogno, in cerca di un chitarrista, di un bassista e di un batterista.
In posti dove chi è al potere pretende di zittire ogni voce che non sia la propria o alla propria assonante, cose per noi innocenti diventano crimini. Nell’Iran di oggi si va in galera se si suona in una rockband. Bahman Ghobadi ha girato clandestinamente a Teheran, attingendo dallo sconosciuto patrimonio rock locale, un groviglio di band e di generi che filtrano lezioni di suono newyorkesi e londinesi con grazia persiana. Gli attori sono veri musicisti indie che passano giornate in perenne fuga dalla polizia, costretti all’illegalità nel sogno, animati da passione pulsante nella più totale mancanza di certezze. Il regista li segue con affetto e a tratti, pare, in simbiosi: ciò che ne viene fuori è un collage leggero, volatile eppure denso e commovente, fino al dramma finale.


Lo spettatore assiste alle prove negli scantinati, sente germogliare protocanzoni da semplici riff e poi canzoni vere e proprie, segue con gli occhi il correre delle dita sulla tastiera del basso e batte il piedino al ritmo della batteria; si lascia andare alla visione utopica e carbonara che questa musica – fittamente visionaria – genera con grande facilità. “Avrei potuto non uscire mai fuori, far vedere le band e basta, questo suono ha un forte linguaggio visivo”, ha spiegato Bahman Ghobadi al termine della proiezione in anteprima nazionale al festival Middle East Now di Firenze. “Però mi interessava anche raccontare Teheran a chi non la conosce e l’unica via che avevo era farlo attraverso la musica. Per questo ho girato anche fuori, ho mostrato immagini frenetiche e alla fine nel film, mentre la musica va, si vede una capitale nel caos, in continuo movimento”. Così lo spettatore corre in sella ad una moto per strade in cui tutto freme e si calpesta, inseguendo le tappe della storia – co-sceneggiata dalla giornalista Roxane Saberi, realmente arrestata nel maggio del 2009 – e giungendo ogni volta in una sala prove improvvisata da qualche parte sotto terra e trovandoci, nello stesso tempo, una rigenerazione e un urlo liberatorio.




14 Febbraio 2010 alle 12:52 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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