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La Gioconda

di | in: Primo Piano

30 gen 10 – Stavo  già  sul treno, per tornare a Santomartire.

Esternavo comportamenti d’indifferenza ma, siccome sul treno ci salgo rarissimamente perché non mi è mai piaciuto il mezzo e mi fa sentire troppo vincolato a luoghi ed orari, in realtà ero  stato attento e vigile fin da quando ero salito: a identificare la carrozza ed il posto giusti,  a ben sistemare il bagaglio ed il pastrano sulle rastrelliere, a non disturbare i viaggiatori già presenti nello scompartimento, a…

La carrozza era la sei, il posto il quarantacinque al finestrino, i due sedili accanto al mio occupati da una coppia di giovani, studenti presumibilmente, i tre posti di fronte  tutti liberi: il treno era ancora fermo alla stazione di Bari, la partenza prevista a otto minuti, l’arrivo a tre ore e mezzo.

Quando il convoglio si mosse, ero già immerso nei pensieri che mi generava  una pianificazione d’attività aziendale il cui schema grafico  avevo aperto davanti a me sul piccolo tavolino retrattile posto   sotto il finestrino. L’avevo elaborata con  la mia assistente universitaria   nei due giorni precedenti , in società con lei gestivo un’attività di consulenza direzionale.  Nel caso specifico, un’azienda pugliese di notevoli dimensioni, che agiva nel settore della raccolta dei rifiuti urbani servendo una trentina di comuni, ci aveva commissionato uno studio mirato all’ottimizzazione commerciale e finanziaria dell’intera società: dovevamo stare molto attenti a come impostare il lavoro specialmente  in funzione del fatto che venti di quei comuni erano contestualmente, oltre che oggetto del servizio, anche soci della stessa azienda  e gli obiettivi degli amministratori non sapevamo ancora bene quanto propendessero verso il  profitto societario o, invece, verso il riconoscimento politico-sociale da parte dei cittadini serviti.

Non dovevamo sbagliare, il contratto era un ottimo contratto, il cliente un ottimo cliente e ci aveva già versato un congruo anticipo, un terzo del compenso pattuito.

Cominciai a considerare l’attività identificata nello schema grafico ponendomi nell’ottica  d’interesse  politico/pubblico  ed ero così assorto che proprio non m’accorsi come nello scompartimento fosse entrata un’altra persona. Quando alzai lo sguardo dal mio schema, me la trovai davanti,  girata di spalle mentre riponeva un borsone sulla rastrelliera:  voglio raccontare perché, persa improvvisamente la concentrazione, non la riacquistai più per i successivi  due giorni.


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La persona era di sesso femminile e, di dietro, sembrava essere  stata disegnata da un Maestro rinascimentale. Non un apprendista di bottega, non un dipintore ripetitivo a soggetto, non un onesto manierista ma un vero Maestro con la maiuscola.

Appariva giovane: leggiadra, la chioma splendente e riccia dal colore fulvo ricadente di lato sulla spalla sinistra; ardita, la curva del collo che vedevo dipartirsi dalla spalla destra; sinuosa, la linea delle braccia alzate;  vibrante e delineata, la traccia della dorsale sotto il mini pullover ;  rapsodica, la rotondità dei glutei a seguire il vitino da vespa; longilinea, la valenza degli arti inferiori strettamente inguainati in un pantalone aderentissimo e librati su scarpette dal tacco alto.

Era vestita totalmente di bianco e , mentre sistemava il borsone sulla rastrelliera, il mini pullover s’era alzato sulla schiena e dal pantalone a cintura bassa fuoriusciva una parte del cordoncino di un tanga : cercai di non pensare dove proseguisse il suo andare, del cordoncino intendo. Anche quell’intimo era bianco.

Sicuramente dovevo aver assunto un’aria estatica, la bocca un po’ aperta sicuramente, tanto che la coppia di giovani  vicina , guardandomi, tratteneva a stento le risa.

L’opera d’arte si girò con moto aggraziato esclamando:

“ Mammamia, che fatica mettere le cose lassù!”

Mi sentii risponderle sottovoce:

“ Mammamia!”

Ma non era, mi si creda, l’assecondare del suo dire bensì una spontanea esclamazione di sbalordimento nel vedere il dipinto di fronte. Tutti possono capirmi, anche chi non fosse mai entrato in una pinacoteca: quella assomigliava ad una dama leggiadra dei tempi antichi, aveva il naso leggermente arcuato, la bocca bellissima su cui aleggiava un accenno di sorriso, il taglio d’occhi molto allungato. Da sotto i capelli spuntava un cerchietto che le correva a metà della fronte, il busto flessuoso (che, mentre la osservavo, evitai di aggettivare ‘eretto’ per distinguerlo da un effetto di cambiamento che stavo subendo), i fianchi stretti e le ginocchia puntute: il Maestro non aveva lasciato niente a metà .

Si sedette compostamente ponendo le gambe strette in posizione obliqua rispetto all’asse del corpo e, aperta una  borsetta  che aveva con sé, ne estrasse un rossetto dal colore pallido-delicato con cui, senza alcuna ostentazione, velocemente si ritoccò le labbra.

“ Aaahhh…” pensai mentre nelle orecchie mi si insinuava Bach Johann Sebastian col Magnificat vocale del 1723, contemporaneamente arretrando le gambe per lasciar spazio alle lunghissime sue.

“ Stia comodo, non si preoccupi ”  disse lei, alzando lo sguardo su di me ed era uno sguardo color dell’ambra, mioddio, e, mioddio, la voce assonante parve completare quel che non credevo mancasse al Magnificat.

Non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso, non la guardavo di sottecchi, non la guardavo ad intervalli brevi e ripetuti, non la guardavo discretamente, non la guardavo timidamente: no, mi trovai a rimirarla, fissamente, ostentatamente, sotto un certo profilo anche impudico-spudoratamente…Lei incrociò il mio sguardo e mi elargì un sorriso composto.

“ Aaahhh…” pensai mentre il Magnificat stemperava in una delle Suite per Violoncello del 1740. Mi venne anche da pensare cosa avrebbe potuto comporre se non fosse divenuto cieco e avesse incontrato una così, Bach voglio dire. Poi capii l’incongruenza del paragone: nel 1700 le dame non indossavano il tanga.

Non so perché,  ma improvvisamente mi sentii ‘ovattato’, vedevo un film gradevolissimo (che fortuna non averlo perso) correlato da colonna sonora superba che mi proiettava nel lontano passato ma c’era una ritmica di sottofondo che in qualche maniera mi teneva legato al presente e riconduceva all’oggi tecnologico le mie sensazioni interne. Senza staccare gli occhi dal dipinto, cercai di fare mente locale e riuscii a comprendere: era il rumore  dello sferragliaramento ferroviario!

Tum, tum-tum. Tum, tum-tum suonavano le ruote del treno sulle rotaie investendo contemporaneamente quadro e musica che avevo a fronte e nelle orecchie.

Poi, il treno fece tum-tum-tum-trarattatumtum sugli scambi, accompagnando il tutto con uno stridore improvviso di freni ed entrammo in una stazione:

“ Barl..ta, Staz..ne di Barl…ta!” gracchiò un altoparlante rotto e mai riparato, come tutto nelle Ferrovie dello Stato.  Nessun nuovo viaggiatore entrò nello scompartimento.

Il viaggio proseguì senza che io, per quanto mi applicassi volenterosamente, riuscissi neppur parzialmente a riprendere le fila dell’analisi consulenziale. Continuavo a guardare l’opera d’arte mentre lei sembrava non accorgersene o fingeva di, continuando a rimanere immersa nella lettura di un periodico che aveva estratto dalla borsetta.

Non mi accorsi assolutamente del tempo che passava, delle fermate che il treno effettuava. Poi, la coppia di giovani scese – perdio, erano passate ormai due ore dalla partenza da Bari – alla stazione di Termoli, andondesene dallo scompartimento senza salutare, lasciandomi solo con lei.

Lei, veloce, si spostò di un sedile:

“ Così non dovremo più costringere le gambe”  disse rivolgendosi a me (e a chi , se no? elucubrai : forse mi stavo rincoglionendo).

“ Oh, grazie” risposi sorridendole e anche lei lo fece.

Era veramente tutta in tono, anche i denti erano bianchissimi e, quel luccichio del brillantino che teneva incastonato sul canino di sinistra, impreziosiva la perfezione.

“ Aaahhh…” pensai.

Mentre il treno si riavviava, fu lei che mi rivolse la parola. Guardando il foglio che avevo continuato a tenere aperto davanti, mi disse:

“ Quanti numeri, mammamia!”

Aveva un tono che esprimeva  interesse ma con discrezionalità, un che di fonicamente pudico ma , nello stesso tempo, mescolato con quel pizzico di nonchalance che non obbliga ad una risposta precisa e permette assolutamente la generica. Ancor più  avvalorava la sensazione perché aveva parlato riprendendo contestualmente la lettura del periodico.

“Oh, solo numeri ipotetici, chissà se si riveleranno corretti!” risposi mettendo la mano aperta sul foglio.

Le risvegliai, o almeno così credetti, un moto d’interesse perché riportando lo sguardo dal periodico alla mia mano aperta sul foglio chiese con una punta di curiosità (solo una punta):

“ Numeri ipotetici? Ma…che significa? Oh, mi scusi, non vorrei essere invadente…”

“ Aaahhh…” pensai .

E pensai anche come il discorso si fosse  incanalato sul copione giusto, quello che conoscevo a menadito io, attore teatrante, incorreggibile sostenitore di prime-parti.

“ No, no” risposi “ nessuna invadenza, per carità! E’ uno studio economico, ancora non verificato, per  migliorareil business di un’azienda del nord…”

“ Business…” mormorò lei, spalancando leggermente gli occhi.

“ Sì, business, l’attività commerciale dell’azienda volevo dire” precisai ,  senza alcuna pomposità.

“ Ah, capisco” disse lei ( ma io sapevo che non capiva un bel niente)  ” quindi lei è …lei è…un funzionario, un…”

“ No, no” risposi “ io sono solo un consulente dell’azienda, un professionista esterno…” il copione, se recitato con il dovuto sottofondo d’umiltà e con un porsi artatamente schivo, doveva condurre  al maggior interessamento del personaggio contrapposto, dell’altro attore presente sulla scena, dell’inconscia spalla.

“ Interessante…” mormorò lei, sporgendo leggermente il capo in avanti,  guardandomi.

“ Per la verità, signorina, ancora non so se sarà veramente interessante, per il mio cliente voglio dire…”

“ Lo sarà certamente se riuscirà a migliorare il business, l’ha detto lei ” disse,  quasi interrompendomi.

Però, è  arguta, notai e notai vieppiù che non riusciva a nascondere totalmente un leggero accento pugliese. Bene, pensai, bene.

“ Bene “ le dissi “ allora ha carpito il segreto delle consulenze manageriali: migliorare le aziende o almeno…far credere di poterci riuscire…”

“ Lei è molto bravo? Ci riesce? “ tendeva  ad interrompere ,  quasi ad evitare che l’argomento di discussione venisse a termine.

“ Non posso rispondere su me stesso “  risposi (il copione imponeva l’umiltà continuativa) “ posso dire che ho ben lavorato e la voce circola fra imprenditori…continuano a chiamarmi…mi affidano la ristrutturazione del  marketing  societario…”

“ E’  bravo, allora. Certo, è molto bravo” la sentii affermare: mi fece piacere.

“ E lei? Lei cosa fa, di cosa si occupa? ” ecco il punto delicato della recita: il copione ora assegnava al controattore una parte principale.

“ Oh, io…” sembrava voler essere, come me, altrettanto umile nel tono mentre un diffuso rossore le si estendeva sul viso “ sono studentessa universitaria…fuori corso…studentessa lavoratrice…”

“ Che coincidenza…” mormorai, anch’io interrompendola  (pensai che mai il copione-base si era adattato così perfettamente alla recita contingente che stava impegnandomi).

“….sono iscritta a Bologna, in economia…”

“ Incredibile coincidenza, signorina…” rimormorai facendomi comunque udire.

“ Perché coincidenza? ” lei finì per chiedermi.

“ Perché, signorina, io faccio il consulente ma insegno anche in università…” lei si portò una mano alla bocca “…in facoltà di economia…” lei sgranò gli occhi d’ambra. Proprio come da copione.

“ A Bologna? “ chiese “ Non mi pare di averla…”

“ No, no, non a Bologna…” ma evitai di dirle dove, per  farle aumentare il livello di curiosità  “  Io insegno marketing e business management ”

“ Marketing e business management…” ripetè lei con gli occhi sempre più spalancati.

“ Che coincidenza, eh, signorina? ” ribadii.

“ Gioconda “ rispose lei.

“ Come dice? ” chiesi (ma avevo capito benissimo : ecco a chi assomigliava, perdio!).

“ Gioconda” ripetè “ Mi chiamo Gioconda”

“ Posso chiamarti Gioconda, allora? Potresti essere una delle mie studentesse…”  approfittai per darle subito del tu, avevo deciso di velocizzare la rappresentazione, qualcosa mi diceva che il rischio di far naufragare l’opportunità era contenuto.

“ Certo, professore, mi chiami  Gioconda”

“ E tu chiamami Antonio allora!”

“ Oh, no, non potrei mai, professore”

“ Sforzati, prova…” il dialogo reale sembrava riproporre  perfettamente quello scenico conosciuto.

“ Non me lo chieda, professore, non ci riuscirei…posso spingermi…” ed arrossì di nuovo “ a chiamarla professor Antonio…”

“ Certo ” dissi subito “ va bene così, intanto che ci conosciamo meglio”.

Mi ero così immerso nel dialogo, meglio, nel lato teatrale della rappresentazione che stavamo sostenendo, che avevo nuovamente perso di vista le fermate che il treno aveva effettuato, felice che nessuno avesse ancora aperto la porta dello scompartimento per prender posto dentro.

“ Quanti anni hai, Giconda?”

“ Venticinque, quasi ventisei,  professor Antonio, le sembro vecchia?”

Aaahhh, pensai.

 “ No, cara “ dissi “ sei splendidamente giovane, sei ” e, mentre l’orchestra  attaccava il Bolero di Ravel Maurice del 1928, non riuscii a trattenermi nel suo di sguardo perchè il mio cadde inavvertitamente di una ventina di centimetri sugli altri occhi dritti e sodi che aveva e la caduta coincise proprio con  il primo innalzamento del livello di volume acustico orchestrale del Bolero stesso.

“ Sei a Bologna solo per studiare?” le chiesi,  cercando di riprendermi.

“ Oh, no, riesco anche a mantenermi, lavorando, professor Antonio…” sì, l’accento leggero era pugliese, ma…

“ Dai, dimmi cosa fai, dove lavori!” la incitai.

“ Lavoro al Cocoricò di Riccione ” mi disse mentre la bocca si atteggiava spontaneamente al  sorriso enigmatico leonardesco.

Rimasi un attimo sovrappensiero cercando di mettere a fuoco i ricordi, superando il volume montante dell’orchestra, ma rammentai quasi subito: il Cocoricò era la discoteca dove potevo trovare con sicurezza mio figlio quando non fingeva di frequentare l’ateneo bolognese in cui lo avevo mandato a studiare…

“ Ah, il Cocoricò, la grande discoteca ” dissi

“ Sì, quella…” avevo forse notato un fondo di perplessità nella sua voce? Di …tristezza?

“ Impiegata? Cameriere?  Barista? ” le chiesi.

“ No, no: cubista ” mi rispose subito “ adesso le faccio vedere…”

Si alzò,  nuovamente girandosi per prendere qualcosa dal borsone posto in alto sulla rastrelliera : così mi si ripresentò alla vista non solo il cordoncino del tanga ma anche una  porzione del sito dove lo stesso spariva e, nel momento in cui deglutivo, la parte superiore di un tatoo rappresentante due meravigliose ali d’aquila spiegate, in rosso dominante, giusto tocco di colore in tutto quel bianco.

Aaahhh, pensai.

Certamente per parziale mancanza di ossigenazione al cervello, non seppi rendermi conto , una volta che Gioconda si rigirò, se fossi o no totalmente in me.

Lei teneva in mano una grande foto incorniciata all’interno di una cartellina  e me la mostrava:

“ Eccomi, vede ? Sono sul cubo…”

La vedevo, certo che la vedevo:  stava ballando sul cubo illuminato,  la foto era ripresa di trequarti-retro  con lei che finalmente mostrava dove scompariva tutto il cordoncino del tanga, mostrava tutto il tatoo alato  e , visto che torceva il busto verso il fotografo, tutti e quattro i suoi occhi , ambrati o dritti-sodi che fossero.

“ Le piaccio? ” mi chiese con l’indice rivolto alla foto.

“ Tanto “ riuscii a risponderle.

“ Ah, professor Antonio! Che piacere mi da sentirla dire che le piaccio!” disse elargendomi un  sorriso totale.

“ Tanto, tanto ” ribadii con un filo di voce, del tutto  fuori copione, come non l’avessi sentita.

Mi resi conto all’improvviso di aver ceduto la parte principale e come fosse lei  adesso a comandare la rappresentazione e anche di quanto non m’importasse di aver perso parzialmente la ribalta. Mi sentivo, come dire, teso e felice, molto teso e tanto felice. Tanto che, mentre il treno iniziava a frenare, quasi non sentii l’altoparlante interno declamare ovattatamente: “  Santomartire, prossima fermata Santomartire”.

Ero arrivato! Perdio, dovevo scendere!

“ Devo scendere, Gioconda! Sono arrivato!” le dissi alzandomi velocemente, perdendo un po’ d’aplomb ed iniziando ad indossare il pastrano.

“ Ah, lei abita qui a Santomartire! E’ un bel posto, io lo so, complimenti…”

“ Gioconda, mi spiace lasciarti così …”  affermai togliendo il bagaglio dalla rastrelliera.

“ Anche a me spiace “ affermò anche lei.

“ Allora ti lascio il mio biglietto da visita…”  dissi cercandone uno nelle tasche senza trovarlo, come sempre succede “…non lo trovo…”

“ Fa niente, professor Antonio le do il mio” disse lei e velocemente, presolo dalla borsetta, me lo infilò direttamente in una tasca del pastrano che avevo indossato.

“ Ciao, Gioconda ” le dissi, con il treno che si era  già quasi fermato.

“ Ciao, professor Antonio “ rispose e, mentre aprivo la porta dello scompartimento per uscire nel corridoio della carrozza, fece il gesto di offrirmi la guancia.

Scesi dal treno e ripassando sulla banchina davanti al finestrino del nostro scompartimento, me la ritrovai sporta che mi porgeva un foglio:

“ Ti sei dimenticato questo, professor Antonio ,  lo studio economico!”

“ Oh, grazie Gioconda“ le dissi prendendo il mio scritto. E restammo a guardarci così finchè, come risvegliatomi al muoversi del treno, camminando accanto al convoglio, le dissi:

“ Non te l’ho neppur chiesto: stai andando a Bologna? ”

“ No, no…” rispose socchiudendo gli occhi e distogliendoli un attimo dai miei “… scendo a Rimini, per qualche giorno mi fermo a Riccione ”  ma poi, mentre il treno iniziava a portarla via, riguardandomi, mi rivolse un labbiale rallentato:

“ Te-le-fo-na-mi. Te-le-fo-na-mi ”.

Fu così che mi ritrovai sulla banchina della stazione ferroviaria di Santomartire, gli occhi sull’ultimo vagone di un treno che si allontanava portandosi via Monna Lisa in carne e ossa,  una mano alzata a salutarla sventolando un foglio pieno di numeri ipotetici, la decodifica di un invito labbiale a telefonarle e tre pensieri improvvisi ed insistenti a farsi largo nella mente.

Il primo mi evidenziava che lei mi aveva dato del tu, da quando ero sceso dal treno mi aveva dato del tu.

Il secondo mi pressava a decidere su quando telefonarle.

Il terzo mi riproponeva insistentemente quanto avevo visto mentre lei mi rivolgeva il labbiale rallentato: a metà della lingua aveva un pearcing con sferetta metallica agli estremi.

Quest’ultimo pensiero dette il via alla musica di scena di Mendelssohn Jakob Ludwig Felix  per il Sogno di una notte di mezza estate:  l’armonia m’ inondò la testa immediatamente.

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Telefonai l’indomani.

Il biglietto che mi aveva messo in tasca Gioconda diceva :   Gioconda (centrale, grassetto corsivo), Ballerina – Artista (centrale, corsivo, sotto  Gioconda); seguiva ,ancora  centrale e staccato, un numero di telefono di rete fissa. Lo composi:

“ Cocoricò di Riccione ” rispose una voce maschile, profonda e dall’accento spiccatamente romagnolo.

“ Vorrei parlare con Gioconda “ dissi dopo un attimo d’esitazione.

“ Gioconda chi? ” chiese quello. Esitai ancora:

“…non so, veramente…” farfugliai.

“ Ce ne sono cinque che lavorano da noi  in questo momento con lo stesso nome d’arte” puntualizzò l’uomo.

“ E’ pugliese, barese forse…” rifarfugliai.

“ Nessuna è pugliese! Tre sono albanesi, hanno preso un po’ d’accento forse ” disse il romagnolo.

“ Lei è universitaria a Bologna…” avanzai.

“ Ah, se è per quello sono tutte universitarie, anzi  spesso anche laureate…” affermò l’uomo e il tono mi parve sarcastico.

“ Lavora lì come  cubista! ” cercai di precisare.

“ Certo,  cubista, come le altre due! ” rispose l’altro ed  il tono era certamente ironico.

“ Ma lei assomiglia proprio al quadr…”  cominciai  senza poi finire e, dal momento che non parlavo più, sentii l’altro dirmi:

“ Amico, non saprei chi passarle e poi adesso saranno a dormire tutte e tre. Perché stasera o una di queste non fa  un salto qui da noi? Se la vede la riconoscerà subito, no, la sua Gioconda? Dopo il lavoro, potrà senz’altro parlarle… se la sua Gioconda non dovrà parlare con qualcun altro, s’intende! D’accordo? ” e interruppe la conversazione mentre, quasi un riflesso condizionato, stavo per rispondergli ‘d’accordo’.

Ma, stante la linea interrotta da quello, spensi anch’io il telefono.

Al piano, Chopin Fryderyk Franciszek già aveva impostato il primo accordo del notturno che più amavo. (*)

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(*)Sia chiaro, questa è uno dei cinque/sei finali che sono in grado di proporre, forse quello che più mi mette al riparo – il personaggio maschile che scrive in prima persona  è un certo Antonio, no? –  da eventuali possibili ritorsioni di Caterina, mia moglie. Chè è una perlacea d.o.c., capace di vendette a livello tribale.

Comunque, a seguirne la fruizione, valga la prece di non scaricare il racconto sul p.c., di ingoiarne l’eventuale cartaceo ma, in particolare, di non parlarne assolutamente e per alcun motivo.

Per ringraziare della comprensione e  sdebitarmi almeno parzialmente, taccio consentendo così a chi piaccia l’ascolto  de  ‘La creazione’  di Haydin  Franz Joseph: una chicca.

Franco De Anna




5 Febbraio 2010 alle 10:14 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |
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