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La “Popsophia” sta nelle piccole cose

di | in: Cultura e Spettacoli, Primo Piano

Francesca Rigotti

Francesca Rigotti e Antonio Gnoli fanno filosofia dell’oggetto: dall’Old Fashion al Fazzoletto di Desdemona


La pioggia bagna Popsophia. Eppure ieri a Civitanova Alta, il pensiero filosofico non è sembrato appesanto dall’acqua, ma anzi ha navigato tranquillo tra le vie affollate del centro. Il Chiostro di Sant’Agostino per la rassegna Pop Philosophy ha ospitato due pensatori che intrattengono un rapporto anticonvenzionale con la filosofia: Francesca Rigotti e Antonio Gnoli. Ciò che accomuna i due filosofi nell’intervento di ieri sera sta nella possibilità di fare filosofia con le cose; il dimostrare che dietro agli oggetti della quotidianità si cela un ragionamento ben più ampio del previsto.


CIVITANOVA, 2011-07-24 – La riflessione della filosofa trova il suo punctum nel quotidiano e negli oggetti che lo popolano. Si può fare filosofia a partire dagli oggetti? Sempre in bilico tra ironia e profondità, la Rigotti inizia dal fondamento teorico volto ad esplicitare cos’è la filosofia, il bello, il buono, il vero. La filosofia è un lusso per pochi poiché non serve a produrre nulla e solo pochi sono in grado di esercitarla. La sua “Old fashion” è però sostanzialmente una dimostrazione pratica: si può fare filosofia con le cose e la si può fare anche con quel che oggi è de modè come il grembiule, la vestaglia o il velo. Il vero lusso filosofico risiede proprio in questa possibilità di occuparsi di ciò che è effimero, di cose che conosciamo per la funzione che svolgono e non per la nascita che hanno avuto. È un po’ come conoscere gli oggetti quando iniziano a morire. Quella giusta distanza tra oggetto e soggetto permette all’individuo di notare ciò che spesso difficilmente emerge. L’effimero inizia ad essere oggetto di studio nel momento in cui la filosofia viene sdoganata e può finalmente occuparsi del pop facendo esperienza filosofica del quotidiano.

E allora non ci si stupisce più se il grembiule è oggetto da contemplare nel suo presidiare qualcosa di buono in quanto cinge il grembo, di per sé culla di vita. Il rimando logico è a Platone che lega la pentola al concetto di bello non solo per la perfezione della forma ma anche per la bontà celata al proprio interno. La vestaglia allo stesso modo, essendo un indumento, realizza quell’equilibrio tra il sentimento verso se stessi e quello per il mondo tutto. Il disagio che avvertiamo quando indossiamo qualcosa che non ci appartiene stilisticamente viene difatti riversato sulla nostra visione del mondo. L’esempio che la Rigotti fa è quello di Diderot che in uno scritto compiange la veste da camera di cui è stato privato. Infine il velo, simbolo utilizzato per eccellenza per indicare qualcosa che cela la verità. Il riferimento è al Velo di Maya di Schopenhauer ma anche all’iconografia della copertina dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alambert del XVIII secolo. La Verità avvolta da un velo che la Ragione e la Filosofia sono intente a togliere e strappare mentre ai suoi piedi, la Teologia inginocchiata le mostra le spalle.

E nel breve abstract conclusivo che regala al pubblico rifugiatosi dalla pioggia presso Palazzo Ciccolini, la Rigotti filosofeggia sull’ombrello, l’oggetto che, come l’Essere, Heidegger docet, per definizione viene spesso dimenticato.

 

Nel secondo bagnato appuntamento delle 22.30, assistiamo invece ad una riflessione che si sviluppa da una trama letteraria.

Quello che solitamente viene letto come un dramma della gelosia infatti, ieri sera presso il Chiostro Sant’Agostino, è stato presentato con occhi nuovi, quelli di Antonio Gnoli. Il filosofo ci introduce alla sua singolare riflessione sull’Otello di Shakespeare spostando tutta l’attenzione della storia sul Fazzoletto di Desdemona. Questo oggetto delicato ha di fatto un ruolo essenziale dovuto all’umanizzazione che lo stesso riceve. Esso non è solo un regalo di Otello alla sua Desdemona ma è anche un simbolo forte ed inviolabile. Perderlo ha un carico di significati che vanno oltre il significante oggettuale. Non solo, ma l’aspetto più interessante è quello che lega il fazzoletto all’esatto contrario di ciò che esso rappresenta a livello sociale. Se è un oggetto importante per la civilizzazione iniziando dalle più basilari norme igieniche che garantisce, Shakespeare lo riconverte in un oggetto perturbante, un deus che agisce in machina per ordire la congiura. Non è dunque un oggetto neutro ma ha assunto una forza autonoma rispetto alla storia, si emancipa dalla mera funzione per cui è nato e diviene oggetto da cui dipendono le sorti di tutti. Il protagonista è dunque questo pezzetto di tessuto con origini magiche, la cui sostanza invisibile rende vittime tutti coloro che entrano in suo contatto. L’oggetto di fatto non è più una trama fitta di fili di cotone magistralmente intrecciati, ma è il potere che esso conferisce ed attribuisce, il simbolo che incarna.

Ma tale spostamento del punto d’osservazione non può però non farci notare la natura dicotomica di tutti gli altri personaggi. L’Otello accumula in sé sedimentazioni: il polo positivo e quello negativo sono complementarietà di tutti i protagonisti. Questo aspetto relativistico dell’interpretazione del reale è frutto della filosofia di Michel de Montaigne. Nel ‘600 la rivoluzione scientifica e quella geografica avevano difatti introdotto quella visione non assolutistica della realtà, lezione poi interiorizzata da Shakespeare. Ed è per tale ragione che l’Otello non può essere visto solo come dramma della gelosia ma è soggetto a numerose letture: da dramma interraziale a quello epistemologico. Il tutto nella semplice e sola contemplazione del reale che filtra da un fazzoletto di stoffa.






24 Luglio 2011 alle 15:26 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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