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John Cheever, la middle-class americana in breve

di | in: in Vetrina

John Cheever “I racconti” (pag. 830; euro 40)

«L’amore era sicuramente il sentimento provato da Nailles ma, mentre un uomo più espansivo in un altro paese avrebbe abbracciato il proprio figlio manifestandogli tutto il suo affetto, lui al contrario rimase immobile. Si limitò ad accendersi una sigaretta e a tossire. Era una tosse tormentata e piena di catarro che lo scosse violentemente facendogli affluire il sangue al viso e che mise in evidenza, più di ogni altra cosa, la differenza di età tra loro due.» (John Cheever, “Bullet Park”)


di Pierluigi Lucadei


Cos’hanno in comune Jackson Pollock, Michelangelo Antonioni, Gene Kelly, Jorge Amado, Elsa Morante? Sono tutti nati un secolo fa, nel 1912. A questi nomi un qualsiasi amante della letteratura americana non dimenticherebbe di aggiungere John Cheever, lo scrittore del Massachusetts del quale in questo 2012 ricorrono sia il centenario della nascita che il trentennale della scomparsa. Nato il 27 maggio 1912, morto il 18 giugno 1982. Spesso ricordato, per i numerosi punti in comune, come lo scrittore gemello del più noto Raymond Carver. Simili le tematiche affrontate, identica la passione per le short stories (curioso che l’uno e l’altro siano stati più volte indicati come il “Cechov d’America”), uguale anche il vizio della bottiglia. Quello che molti non sanno però è che Cheever sia venuto prima di Carver, abbia preceduto la sua opera di almeno vent’anni, definendo i confini di perfezione della brevità che poi le short stories di Carver hanno magnificamente ereditato.
Cheever si inserisce, sin dal primo apparire delle sue storie, nella grande tradizione del racconto americano che da Sherwood Anderson arriva fino a David Foster Wallace, mettendo in scena la tragicità di una middle-class intrisa di mondanità e da essa come immalinconita, abbandonata, infine deturpata. L’agognato e insieme vituperato sogno americano è la trama su cui si legano le esistenze virate in blu dei personaggi, persi in un senso di attesa che raramente si materializza, colti più spesso nell’attimo della lotta per non corrompere la propria anima. C’è nei racconti un circospetto pessimismo, una disperazione non urlata, apparentemente sotto controllo, ingabbiata negli ingranaggi della modernità e lì relegata al silenzio. Distimie o franche psicopatologie arenano i tentativi dei protagonisti di costruirsi una propria felicità, laddove i loro stessi gesti folli non li emancipano da uno scoramento timido come un sottofondo di pioggia sottile. Il protagonista de Il nuotatore decide di tornare a casa da un cocktail party a nuoto, seguendo l’insolita rotta delle piscine del vicinato, quello di Oh gioventù e bellezza!, al termine di ogni festicciola del sabato sera, sposta divani, sedie, tavoli e tutti gli altri mobili del soggiorno per esibirsi in una gara domestica di corsa a ostacoli: il loro corteggiare l’autodistruzione sembra partire proprio dalla soffocante ritualità di quel rumore di pioggia.

John Cheever “Bullet Park” (pag. 240; euro 8,50)

L’impianto drammatico, l’ironia glaciale, la prosa disadorna donano ai racconti un’aria vagamente sinistra, come in Una radio straordinaria, dove l’arrivo di una radio che capta le voci del quartiere permette di turbare una quiete solo apparente e di ammettere il voyeurismo nel salotto di famiglia. Lo scrittore non biasima la debolezza, non si arrende alle periferie mentali e agli abissi interiori dell’uomo bianco americano del XX secolo, a volte si lascia andare a un ghigno di fronte a promesse di rettitudine e di fedeltà che hanno tutta l’aria di poter essere tradite dopo il terzo gin tonic. Solo un’altra volta è un racconto paradigmatico del cinismo e allo stesso tempo della capacità compassionevole nel ritrarre gli «aristocratici decaduti dell’Upper East Side». In questo caso sono i coniugi Beer, Alfreda e Bob, adulti senza altro scopo nella vita se non quello di sperperare i soldi ereditati. Cheever sembra riservar loro la giusta patina di sarcasmo: «Erano quel genere di persone che si incontravano sempre in stazione o agli aperitivi. Mi riferisco alle stazioni della domenica sera, luoghi dove si conclude il fine settimana o la stagione». Eppure, «anche se erano le patetiche cicale di una splendida estate dell’economia, avevano comunque il potere di ricordarti le cose belle della vita – i bei posti, i bei giochi, il buon cibo e la buona compagnia». E non solo, il racconto termina con il grosso motoscafo cabinato dei Beer che salva una barchetta a vela in panne. Come se alla decadenza fosse attribuita la sfacciataggine necessaria per strizzare l’occhio al destino.


Per celebrare il centenario della nascita dello scrittore americano Feltrinelli ripubblica in edizione tascabile due romanzi imperdibili come “Cronache della famiglia Wapshot” (Universale Economica – pag. 380; euro 10,00) e “Bullet Park” (Universale Economica – pag. 240; euro 8,50) e rimette insieme i racconti delle “Stories of John Cheever” (Premio Pulitzer nel 1979), dopo che negli ultimi anni alcuni di essi avevano subito una pubblicazione a singhiozzo ad opera di Fandango: il volume, intitolato semplicemente “I racconti” (Comete – pag. 830; euro 40,00), offre per la prima volta al lettore italiano tutti i 61 racconti dell’edizione originale in un’unica corposa raccolta. Le traduzioni sono di Adelaide Cioni, Vanni De Simone, Laura Grimaldi, Leonardo Giovanni Luccone, Franco Lucentini, Marco Papi, Sergio Claudio Perroni. (PL)




13 Dicembre 2012 alle 18:42 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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