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Terry Riley, la leggenda del minimalismo strega il Lauro Rossi

di | in: Primo Piano

Terry Riley al Teatro Lauro Rossi

di Emanuela Sabbatini

 

MACERATA, 2013-05-12 – “Massimo segno della fine, è il principio” scriveva il letterato Carlo Dossi, e domenica sera al teatro Lauro Rossi di Macerata, la Rassegna di Nuova Musica, chiudendo la sua XXXI stagione con il concerto del grande Terry Riley, in un certo senso è tornata al principio.

Il principio che fa sì che la “musica colta” (colta da colere cioè faticosa?) o come sarebbe meglio dire “forte”, (Quirino Principe docet), e cioè in grado di dare esperienza emotiva travolgente, chiami a raccolta quanta più gente possibile. E difatti il teatro era pieno.

Il principio secondo il quale, e qui ad insegnare è la Gestalt, il tutto è diverso dalla somma delle sue parti. Ed infatti la musica del padre del minimalismo, Terry Riley, mistico quel tanto che basta per avvicinare senza spaventare, non è un insieme di suoni altamente variabili e ricchi. È, appunto, minimal, pochi elementi che insieme danno un risultato diverso dalla loro somma.

Il principio, nel senso letterale di “origine”, che, scegliendo di scarnificare la struttura musicale, torna ad una concezione del suono come moto oscillatorio semplice, archetipico, insito nella natura. Una sorta di enorme totem alla “2001 Odissea nello spazio”, dal quale si sviluppa ogni altra esperienza.

Terry Riley, 78 anni suonati, arriva col suo passo felpato in una camminata dinoccolata, la lunga barba canuta, e un copricapo psichedelico e si siede al piano a coda posto al centro del palco. “Cartolina per Stefano” è una suite in 4 parti per piano solo. Scuote un po’ leggere sul programma di sala che quella a cui assiste il pubblico è una prima esecuzione assoluta.

È un Riley adulto, che pur trattenendo in sé molto del percorso minimalista, sceglie la melodia. È lo fa gradualmente. Se inizialmente gioca di sospensione, arrestando l’esecuzione, inserendo blocchi di note ripetute, prediligendo le chiusure in acuto o in grave, pian piano Riley cede all’arpeggio, si tuffa in qualche buon accenno jazz e ricerca una tenuta equilibrata. La melodia entra così anche per schizofrenia nei cambi di velocità degli arpeggi, nel dialogo tra greve e acuto.

Piovono applausi, l’esecuzione è senza dubbio magistrale ma ancora il vortice minimalista lo abbiamo solo lambito. È con “In C”, celebre pezzo capostipite dell’era minimalista che si intende pienamente quanto questa corrente musicale abbia spinto la ricerca ben oltre qualunque richiamo temporale. Non è presente, non è futuro, non è passato. “In C”, qui nella versione di Scodanibbio, è il non tempo. Uno spazio sempiterno di esplorazione delle possibilità del suono. Non c’è pienezza di pentagramma, nessun segno che possa almeno graficamente racchiudere quanto dietro ad una singola nota, un Do maggiore, si cela.

Otto contrabbassi a semicerchio sul palco. Alle loro spalle uno strumento meccanico fa parte la nota, una sorta di metronomo che detta il tempo delle frasi musicali che con partenze diverse vengono eseguite all’unisono e lentamente variate. Oltre ogni tecnicismo musicale, è l’effetto a cogliere di sorpresa.

È come se dal meccanico si giungesse alla musica. Sì, meccanico, quel flusso sonoro ripetuto, variante eppur invariante come il rumore di una locomotiva, complesso nell’utilizzare molecole semplici.

Dal una sola nota, semplice, alla complessità orchestrale, dalla meccanica al suono narrativo, dalla ripetizione ipnotica cui ci si abbandona alla ricerca spasmodica di una via di fuga. Asfissiante si fa l’esecuzione di circa un’ora: come nella stanza inquietante dell’Angelo Sterminatore di Bunuel, l’ascoltatore è impossibilitato ad uscire, dal brano come dal teatro. Uscire, non è resistere ma abbandonarsi. Lasciare ogni razionalizzazione, inseguire quel misticismo che sottende l’esecuzione, cogliere nella struttura rigida, l’immensa possibilità e libertà lasciata agli esecutori, riflettere sulla musica come sul rumore e il silenzio.

L’ultimo pezzo, “Raga Malkauns” è costume sciamanico. Riley si siede davanti agli otto contrabbassisti e vocalizza come un vecchio cheyenne per propiziare la pioggia. Gli archi partecipano rispondendo, echeggiando, prendendo spunto da Riley. A tratti il tono tribale, cattura l’orecchio e il contrabbasso arriva a ricordare il suono aborigeno del didgeridoo. La gestualità accompagna il vocalizzo quasi ad evidenziare come il corpo sia strumento primario, originario oltremodo archetipico.

Si chiude qui il concerto e la rassegna, con applausi convinti e pubblico che si alza in piedi in onore del grande maestro. Sì, è nella fine che sta il principio.




14 Maggio 2013 alle 18:24 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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