Ma come facevano gli antichi senza il sax

Ma come facevano gli antichi senza il sax

Ma come facevano gli antichi senza il sax

JEROME SABBAGH QUARTET
Jerome Sabbagh SAX   Danny Grisset PIANO   Joe Martin DOUBLE BASS   Kayvon Gordon DRUMS
COTTON LAB– Ascoli Piceno  13 ottobre 2023  h 21.00

Mi sembra proprio che ci voleva, stasera,  la “voce” di questo attrezzo nato in Belgio, per raccontare la N.Y. che poco si conosce: quella normale, non la rutilante, compiaciuta e di moda. La “città che non dorme mai”…ma anche sì. Ci voleva questo tubo grassotto ricurvo a proboscide come i paraurti cromati delle gigantesche auto americane d’epoca, per scoprire la parte segreta della sua anima persa nell’eccitazione del successo. Ci voleva quest’invenzione da una landa di Belgio tutto Plat Pays alla Brel – è piatta pure N.Y. –  per costruire questo suono ferroso morbido e roco (“non bello” dice qualcuno) di mare scuro impastato di nebbia che si muove anche di notte; dai vibrati sospettosi e un po’ paurosi, dai soffi strozzati di locomotiva a vapore, dalle caute esitazioni da meditazione, dai tratti gotici poco rampanti, dai silenzi improvvisi talvolta rasserenanti, dai fraseggi angusti ma luccicanti, dagli azzardati precipizi sonori, dalle impennate nevrotiche. Un suono fisico, senza trucchi, accordato d’istinto, vestito di un’estetica metalmeccanica contro-design. E’ il jazz di N.Y. bellezza. Geometrico e ipnotico. Arduo. Intraducibile. Caldo che non te ne accorgi. Che “parla” con il sax, la cui campana ti cerca, ti guarda, e giuro che suonando ti “parla” come l’obiettivo parlante di una macchina fotografica. Allora mi chiedo: quando il sax non c’era, i musicisti alle prese coi soliti strumenti – legni, fiati & company – comandati dal più europeo di loro il pianoforte, sentivano la mancanza del sax (che non era stato ancora inventato)? Sarebbe stata diversa la grande musica lungo quei 3-4 secoli, se tra gli autori e nelle orchestre fosse comparsa la famigliola dei sax a “disturbare”? Comunque, all’arrivo del jazz il sax stava lì, c’era e si fece spazio. Lo accolsero pure benevoli, nessuno gli fece la guerra. Tanto meno N.Y.

A sentirli stasera, è evidente che non solo tutto il quartetto – oltre Jerome Sabbagh – è di casa a N.Y. ma che sanno anche virare in jazz atmosfere diverse e vintage (come nell’ultimo disco). Il pezzo d’apertura (o il secondo?) è un po’ una fiaba, suoni lenti di ruscello, piccoli rumori, accordi ribattuti, brevi strade parallele a due mani sul piano (col rullante inclinato forse dal vento), il sax che racconta… poi un pezzo vulcanico, un’eruzione violenta, l’incandescenza di una strada coi numeri di Manhattan… un delicato blues anni ’50 carico di pensieri come un Teatro Invisibile… un brano felpato fino a quando tocca al contrabbasso a parlare di sé e il sax che parla, parla, parla… un’aria un po’ all’italiana, alla Bruno Martino cos’hai trovato in lui… Labili ricordi delle bianche orchestrine dei caffè eleganti romani di Via del Corso degli anni ’60 (e io dietro in piedi a guardare). Nella seconda parte ci sarà anche un Duke Ellington rivisitato in chiave free jazz. E tracce di classica, di samba, di altri ritmi imprevedibili, in continue tessiture di jazz. Non so voi, il sax di J. Sabbagh a tratti mi evoca perfino qualcosa di Tom Waits, statunitense la cui famiglia d’origine era “quasi” belga…

PGC    

 

 

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