Best of 2019: i dischi dell’anno del Mascalzone

Best of 2019: i dischi dell’anno del Mascalzone

Anche quest’anno ne abbiamo scelti otto, senza avere la presunzione di presentarli come gli otto migliori dischi del 2019. Sono semplicemente quelli che abbiamo ascoltato di più… più di tanti altri ottimi album che avremmo potuto inserire nella lista e che invece sono rimasti fuori, ma che vogliamo comunque ricordare: il doloroso “Ghosteen” di Nick Cave, il multiforme “i,i” di Bon Iver, il catartico “Trust In The Lifeforce Of The Deep Mystery” di The Comet Is Coming, il sorprendente “The Last King” di Pat Dam Smyth. Come sempre, buon ascolto!

 

Bill Callahan “Shepherd In A Sheepskin Vest” (Drag City)

Anche se troppo lungo (ben venti canzoni!), anche se troppo pacificato, un disco di Bill Callahan è un evento a prescindere, specie se dal precedente sono passati sei anni. Ecco allora Shepherd In A Sheepskin Vest, il quinto lavoro che Callahan firma col proprio nome di battesimo (dopo gli undici firmati Smog), un lavoro nel quale il nostro sembra voler giocare con toni più rilassati, con ritmi indolenti, colori tenui. La sua vita negli ultimi anni ha conosciuto degli importanti cambiamenti che hanno influito molto nel suo nuovo approccio all’arte di scrivere canzoni. Si è sposato con la fotografa Hanly Banks e ha avuto da lei un figlio, Bass. Ha conosciuto il tepore del focolare domestico, se ne è lasciato quasi anestetizzare.

Quando si è rimesso a scrivere dopo un intervallo lunghissimo come non c’era mai stato nella sua trentennale carriera, le canzoni sono venute fuori una dietro l’altra, brevi, anche brevissime, a volte somiglianti a idee di canzoni più che a canzoni vere e proprie (la sensazione di tornare a far lavorare la sua penna e la sua ugola sono descritte in modo candido in Writing: “It feels good to be writing again/Clear water flows from my pen/And it sure feels good to be writing again/I’m stuck in the high rapids, night closes in/It feels good to be singing again/Yeah, it sure feels good to be singing again”). Non c’è magniloquenza in Shepherd In A Sheepskin Vest, c’è un artista che ha smesso di fissare il vuoto dal bordo del burrone e ha iniziato a godere delle piccole sfumature della quotidianità. Si respira un’inedita ironia in The Ballad Of The Hulk e un folgorante idillio amoroso in What Comes After Certainty, racconto di un mood da luna di miele in termini di ineguagliabile chiarezza (“True love is not magic/It’s certainty”). Spiragli di luce sorprendono anche i momenti più cupi, come Angela, dedicata ad una diafana figura femminile, o la catatonica Released, forse la cosa più vicina alle spigolature Smog. E poi ci sono momenti in cui il disco si eleva verso vertici di bellezza assoluti (il trittico Morning Is My Godmother – 747 – Watch Me Get Married, per esempio) dopo i quali non si è più sicuri che Shepherd In A Sheepskin Vest non sia il miglior lavoro di Callahan come inizialmente poteva sembrare. Ulteriore prova arriva con Circles, poco più di due minuti di pura callahaneità per una commovente ballata dedicata alla madre recentemente scomparsa (“I made a circle, I guess/When I folded her hands across her chest/She made a circle, I guess/And a circle does what a circle does best”).

Aldous Harding “Designer” (4AD)
Aldous Harding, neozelandese di ventinove anni, è la più eclettica e spiazzante tra le cantautrici emerse nell’ultimo lustro. Designer è il suo terzo album e mostra le stigmate di una maturità già acquisita, di una grandezza artistica ormai inequivocabile. Oltre che autrice sensibile e originale, Aldous è, a differenza di tante sue colleghe, anche una straordinaria performer: basta assistere ad un suo live per rendersene conto o, più semplicemente, guardare il video di The Barrel, in cui appare vestita con un improbabile cappello a cilindro e dedita ad un assurdo balletto. Aldous ama, in senso positivo, prendersi gioco dell’ascoltatore o quantomeno disorientarlo, sicché non sorprenda l’abbinamento di eleganti sonorità west coast (la produzione è a cura di John Parish, già produttore del precedente The Party) con testi obliqui, pieni di fascino oscuro anche quando rasentano l’incomprensibilità. “Why, what am I doing in Dubai?/In the prime of my life/Do you love me?/Cried all the way through”, si lamenta in Zoo Eyes; “I made it again to the Amazon/I’ve got to erase, the same as the others/And I see it far cleaner than that” canta in Treasure: difficile dire di cosa parli, eppure proprio le due ballate appena citate sono piene di una bellezza così irresistibile che sarebbero sufficienti da sole per mettere Aldous su un piano non troppo distante da artiste come Feist, Cat Power o anche, perché no, PJ Harvey.

L’apertura di Fixture Picture sembra rimandare direttamente ad una California a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, giocata su un’avvolgente tessitura acustica e una voce docile prima che, a metà brano, un violino entri per cambiare le carte in tavola e trasformare il pezzo in un rebus sentimentale. The Barrel gioca con il pop raggiungendo una vetta di svenevole raffinatezza.

Damn utilizza i toni gravi cari ad una certa Nico o alla Marianne Faithfull degli ultimi lavori per tratteggiare un commovente autoritratto fuori fuoco (“When I am led, I resent/Only when I’m left do I know what I said”). La successiva Weight Of The Planets è una sorta di seducente bossanova sotto sedazione. Haeven Is Empty l’ulteriore dimostrazione della pienezza interpretativa dell’artista, che mette i brividi accompagnata dalla sola chitarra acustica. Pilot il minimale sussulto che, citando Camus, chiude un lavoro senza momenti di debolezza, un album che conferma Aldous come la più arty, folle, disperata, autoironica, gotica, sensuale tra le giovani cantautrici.

Purple Mountains “Purple Mountains” (Drag City)
Nel bel mezzo delle giornate dedicate all’ascolto del primo disco firmato Purple Mountains è arrivata la notizia della morte di David Berman e niente è stato più uguale a prima. Dopo oltre dieci anni di assenza dalle scene musicali (l’ultimo album dei suoi Silver Jews, uno dei gruppi cardine del suono indie anni Novanta, è Lookout Mountain, Lookout Sea del 2008), David è tornato in pista con un nuovo moniker, Purple Mountains appunto, e un nuovo splendido lavoro contenente dieci brani che hanno subito preso posto tra le cose più preziose della prima parte del 2019: con queste note a riempire le nostre stanze, la sua morte fa molta rabbia oltre che molto male. L’ascolto è diventato improvvisamente pesante e, allo stesso tempo, catartico. Ogni istante di Purple Mountains ha acquistato un senso di definitivo e lasciato dietro di sé una commozione sincera. Il disco del ritorno che si trasforma nel disco del commiato riesce, però, a cambiare i connotati dei brani fino a un certo punto. Perché le nuove canzoni sono belle canzoni di per sé, a prescindere da tutto. Certo, parliamo di musica dolorosa, depressa, pessimista, che sonda pericolosamente l’abisso mentale del suo autore, tuttavia riusciamo a scorgere l’ironia tipica di Berman, incapsulata in versi di rivendicazione fiera di non appartenenza a questi tempi fatui. Dalla prima canzone scritta per l’album, I Loved Being My Mother’s Son, che risale al 2014, all’indomani della perdita dell’amata madre, al singolo All My Happiness Is Gone che parla di amore, amicizia e anni che passano con una disillusione che perfora l’anima, nonostante le chitarre scintillanti e l’appiccicoso ritornello, da Darkness And Cold che sembra un country sbarazzino ma racconta la fine del suo matrimonio a quella fatale allucinazione che è Nights That Won’t Happen, nella quale il mondo dei vivi sfuma improvvisamente in quello dei morti, Purple Mountains potrebbe essere il libro di testo con cui spiegare ad un ragazzino il significato di un’etichetta molto in voga qualche anno fa e che oggi non usa più nessuno: alternative country.

Andrew Bird “My Finest Work Yet” (Loma Vista)
E’ sempre stato un artista originale Andrew Bird, col suo violino e il suo fischiettare ha portato un’ondata di bizzarria nel territorio spesso fin troppo stereotipato del folk-rock americano. Il problema dei suoi dischi è stato semmai il loro essere poco a fuoco, col risultato che ogni volta potevano dirsi “dispersivi”. Con l’ultimo My Finest Work Yet accade però qualcosa di diverso. Andrew riesce a mettere in mostra il lato sociale e anche politico della sua musica: una volta si sarebbe parlato di disco “impegnato” e difatti molti pezzi trattano di risvegli di coscienze, istanze ambientali, pugni alzati e mani tese. L’ironia non manca, questo è chiaro sin dal titolo e dalla copertina, ma allo stesso tempo sembra che Andrew faccia sul serio come non aveva mai fatto prima d’ora.

Sisyphus ha un’irresistibile melodia beatlesiana che si attacca subito addosso. Bloodless è un invito a mettersi in gioco, una chiamata alle armi contro l’imbarbarimento di social e populismi. Do The Struggle offre reminiscenze di vecchie soluzioni birdiane. Manifest è semplicemente una delle migliori canzoni dell’anno, perfetto incastro di musica e testo, un country old-fashioned che flirta con la filosofia e con il pop con la stessa elegante nonchalance. My Finest Work Yet è un inno in dieci tracce all’apertura, alla comunicazione, al confronto (anche con i propri nemici: “all my enemies they just fall in love with me”, canta in Archipelago). Un inno stramaledettamente rotondo dal punto di vista sonoro, dolce, deciso, a tratti perfetto.

Big Thief “U.F.O.F.” (4AD)

U.F.O.F. è il terzo album dei Big Thief, il primo su etichetta 4AD dopo i due pubblicati su Saddle Creek. Il terzo, si sa, è il disco della maturità e la band newyorkese con le dodici nuove tracce è pronta non solo a confermare quanto di buono aveva già dimostrato fin qui ma anche ad accreditarsi come uno dei nomi più originali e credibili del panorama folk-rock a stelle e strisce.

A dispetto dell’estrema semplicità della formula musicale, Adrianne Lenker e soci sono in grado di fare tremendamente sul serio quando si tratta di andare nel profondo dell’arte di scrivere canzoni.

Il primo ascolto potrebbe essere ingannevole se non si presta attenzione a tutte le sfumature nascoste tra musica e parole. Si potrebbe rischiare di etichettare U.F.O.F. come l’ennesimo disco folk un po’ derivativo un po’ hipster e passare oltre. Già dal secondo ascolto, però, la voce di Adrianne inizia a scavare dentro, a impossessarsi dei sensi dell’ascoltatore e a non mollarlo più. Le sue sono storie di fantasmi, di figure che compaiono con la stessa velocità con cui spariscono.

U.F.O.F. è pieno di filastrocche letali, canzoncine apparentemente innocue che cantano una verità dietro l’altra senza pietà, senza inutili difese, senza paura. Si passa da incantesimi in odore di Fleet Foxes (Cattails) a derive decisamente slow (Terminal Paradise, Magic Dealer), si contempla un’indolenza primaverile e floreale (Century) e ci si arrampica su una sorta di inno alt-country (Orange): tutto questo con la delicatezza e il coraggio di chi non deve dimostrare nulla ma semplicemente si è imposto il compito di creare bellezza dai traumi di una vita.

Wilco “Ode To Joy” (dBpm)

Dopo almeno un paio di album minori, i Wilco tornano con un album da ricordare. Già nel 2018 Jeff Tweedy si è messo a camminare sui binari di una ruvida intimità, pubblicando prima un memoir e poi due dischi solisti gemelli (Warm e Warmer) nei quali ha ripreso confidenza col fatto di essere uno dei più grandi autori di canzoni degli ultimi vent’anni. Ode To Joy prosegue nel segno di tale confidenza. Con la formazione più longeva della loro storia lunga ormai un quarto di secolo, i Wilco degli undici nuovi brani sono meravigliosamente depotenziati e sonnolenti. L’unico episodio corale è il primo singolo Love Is Everywhere, collocabile in un ideale crocevia tra Crosby, Stills, Nash & Young e Elliott Smith, per il resto si lavora sottotraccia, sostanzialmente unplugged (i versi “I have a quiet amplifier/silence seems more true” spiegano bene l’estetica dell’album). La batteria di Glenn Kotche, che assume spesso un andamento ossessivo, è centrale, mentre le fiammate di Nels Cline sono relegate a qualche sporadico guizzo (come in We Were Lucky che, come ha detto Tweedy, ha l’effetto di una “catastrofe nel mezzo del disco”); gli altri Wilco si sentono poco e le ballate finiscono per suonare talmente disadorne e scheletrite da regalare all’ascoltatore una bellezza obliqua, lunare. Non manca qualche momento di debolezza (Citizens) e neanche qualche ritornello buono per un singalong (Hold Me Anyway), ma a vincere è l’illuminante autoanalisi di un poeta prestato alla musica che, pur consapevole che “there is no mother like pain” (lo canta nella splendida One And Half Stars), è capace di intonare un inno alla gioia con un lungo e persuasivo mormorio.

Bedouine “Bird Songs Of A Killjoy” (Spacebomb Records)
Chissà perché aspettavo il sophomore di Bedouine con il timore che la giovane artista nata in Siria (ad Aleppo, all’anagrafe Azniv Korkejian), cresciuta in Arabia ma residente da tempo a Los Angeles, non riuscisse a replicare la magia dell’esordio di due anni fa. E’ bastato invece il primo ascolto di Bird Songs Of A Killjoy per riconoscere il suo tono confidenziale, la sua scrittura limpida e… un talento tutt’altro che passeggero. Quelle di Bedouine sono piccole composizioni di una bellezza riluttante, quasi svogliata, eppure ognuna di esse sembra conoscere il segreto per paralizzare l’ascoltatore. Bastano i chiaroscuri di Under The Night, l’indolenza di One More Time o gli anni Settanta ubriachi di Dizzy per sciogliere qualsiasi resistenza. “I kept the bottle we drank from together/I dont’t know, is that insane?” canta con un filo di voce all’inizio della quasi-title-track Bird, una ballata che odora degli antichi dolori di Joni Mitchell e Vashti Bunyan, e chiarisce che nulla è chiaro nella sua visione dell’amore. Prodotto come l’esordio dal maestro Gus Seyffert e griffato dalla Spacebomb di Matthew E. White, Bird Songs Of A Killjoy è un lavoro dotato di magia raggrumata in pochi accordi feriti e dolci versi da assaporare in penombra, lasciandosi avvolgere da quel sentimento che Bedouine sa trasformare in meraviglia, la malinconia.

Michael Kiwanuka “Kiwanuka” (Polydor / Interscope)
Michael Kiwanuka firma un altro grande album, dopo l’eccelso Love & Hate del 2016. Ma c’è poco da sorprendersi: parliamo di un artista di grande talento, capace di passare nel giro di pochi minuti dal soul più confidenziale al rock più ruvido, dal cantautorato tipicamente british (Van Morrison e John Martyn sono due dei suoi fari) ai cocktail sonori alla Beck. Tutta musica retromaniaca, questo è palese, ma talmente eclettica da lasciare quasi disorientati durante i primi ascolti. Ormai nessuno parla più di Michael come del nuovo Otis Redding o dell’erede di Bill Withers, difficile incasellarlo in un genere, figuriamoci in un paragone con un singolo artista. Michael è perfettamente a proprio agio tanto con la tribalità di You Ain’t The Problem quanto con l’easy listening di Living In Denial; sa quanto accelerare e quando riposarsi, sa quando sussurrare e quando volare alto; ha, soprattutto, la capacità di fare canzoni che, una volte entrate nel cuore, non escono più. Hero, per esempio, non è un semplice singolo ma un autentico instant classic, con riverberi che nemmeno i Black Keys e un testo che rende omaggio all’attivista nero Fred Hampton, ucciso dalla polizia di Chicago nel 1969. Forse non è il brano più originale né il più coraggioso di Kiwanuka ma ne è il simbolo. E’ un brano che raccoglie molti dei temi sviluppati del disco, dove l’attenzione per uguaglianza, identità, ambiente è costante. Un poco alla volta, canzone dopo canzone, Michael sembra scrollarsi di dosso l’innata insicurezza e i tanti dubbi sul proprio posto nel mondo. Ne esce fuori quello che The Guardian ha definito “uno dei migliori album del decennio”: forse in Inghilterra esagerano. O forse no.

 

 

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